I Promessi sposi, questione di geometrie

Italo Calvino sul Giorno analizzò il capolavoro manzoniano. "E quando Dio vi si manifesta per mettere le cose a posto, è con la peste"

Migration

Attorno a Renzo e Lucia e al loro contrastato matrimonio le forze in gioco si dispongono in una figura triangolare, che ha per vertici tre autorità: il potere sociale, il falso potere spirituale e il potere spirituale vero. Due di queste forze sono avverse e una propizia: il potere sociale è sempre avverso, la Chiesa si divide in buona e cattiva Chiesa, e l’una s’adopera a sventare gli ostacoli frapposti dall’altra. Questa figura triangolare si presenta due volte sostanzialmente identica: nella prima parte del romanzo con don Rodrigo, don Abbondio e fra Cristoforo, nella seconda con l’Innominato, la Monaca di Monza e il cardinal Federigo. Estrarre uno schema geometrico da un libro tanto modulato e complesso non è una forzatura: mai romanzo fu calcolato con tanta esattezza come " I promessi sposi"; ogni effetto poetico e ideologico è regolato da un’orologeria predeterminata ma essenziale, da diagrammi di forze ben equilibrati. (...)

Ma appunto per dare a Manzoni l’agio di far entrare nel romanzo tutto quel che gli sta a cuore di dire e di lasciare in ombra tutto quel che preferisce tacere, bisogna che l’ossatura sia funzionale: e non esiste racconto più funzionale della fiaba in cui c’è un obiettivo da raggiungere malgrado gli ostacoli frapposti da personaggi oppositori e mediante il soccorso di personaggi aiutanti, e l’eroe o l’eroina non hanno altro da pensare che a fare le cose giuste e ad astenersi dalle cose sbagliate: come appunto il povero Renzo e la povera Lucia. Nei due triangoli, una somiglianza un po’ ripetitiva e generica lega don Rodrigo e l’Innominato, e lo stesso o quasi si può dire per fra Cristoforo e Federigo. Mentre è nel terzo vertice, quello del falso potere spirituale, che avviene uno stacco netto: don Abbondio e Gertrude sono personaggi così diversi e autonomi da comandare al tono generale della narrazione intorno a loro, commedia di caratteri là dove don Abbondio è al centro del quadro, dramma di coscienze là dove domina Gertrude. È chiaro che delle tre forze in gioco del suo triangolo, quella che Manzoni conosce meglio, o diciamo quella che esprime meglio il fondo settecentesco della sua cultura e del suo gusto, è la cattiva Chiesa. La Chiesa buona, malgrado l’ampio posto che nel romanzo occupano Cristoforo e Federigo, resta una presenza funzionale ma esterna. (...) Nel famoso episodio della conversione i giochi sono fatti fin dall’entrata in scena dei personaggi, e non resta margine per la diversione o per lo scacco: l’Innominato già dal primo momento mostra "se non rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze", e il cardinale è così sicuro del suo potere sulle anime che quando gli annunciano la visita del tristo cavaliere pensa subito alla pecorella smarrita e non a una mossa formale di convenienza politica. Anche quello del tiranno resta un ruolo di repertorio. (...) In realtà stabilire regole interne ai "Promessi sposi" è difficile: Manzoni sposta continuamente il fuoco delle lenti del suo cannocchiale. Una volta sicuro che nelle grandi linee il suo macchinario romanzesco e concettuale funziona, egli compie un lavoro d’aggiustamento per mettere a fuoco i vari personaggi e i vari aspetti, adattando a ognuno un’illuminazione diversa, più contrastata, più sfumata. La sua tecnica di ritrattista procede per approssimazioni successive nelle varie stesure del romanzo, e non è detto che l’ultima sia migliore della prima. Quel che veramente sta a cuore a Manzoni non sono tanto dei personaggi quanto delle forze, in atto nella società e nella esistenza, e i loro condizionamenti e contrasti.

I rapporti di forza sono il vero motore della sua narrazione, e il nodo cruciale delle sue preoccupazioni morali e storiche. Nel rappresentare i rapporti di forza — fra Cristoforo in mezzo al banchetto di don Rodrigo, o la "libera elezione" dei voti monacali di Gertrude, o il Vicario di provvigione nella carrozza di Ferrer tra la folla inferocita, — Manzoni ha sempre la mano sicura e leggera, sa trovare il punto giusto al millimetro. Non per niente "I promessi sposi" è il nostro libro politico più letto, che ha dato forma alla vita politica italiana secondo tutti i partiti, lettura che nessuno può apprezzare come chi, facendo politica, si trova a commisurare giorno per giorno un’idea generale alle condizioni obiettive. Ma anche libro antipolitico per eccellenza, che parte dalla convinzione che la politica non può cambiare nulla, né con le leggi che pretendono di mettere un freno al potere di fatto, né con l’affermazione d’una forza collettiva da parte degli esclusi. (...) C’è nei "Promessi sposi" un romanzo "rivoluzionario" che fa capolino ogni tanto tra le pieghe del romanzo "moderato": con la famosa "riflessione" sui ruoli d’oppressore e di vittima in mezzo al "serra serra" della "notte degli imbrogli", o con lo sfogo che Renzo trova alla sua sete di giustizia personale nella sommossa milanese contro il caro-pane. Ma anche le occasioni del romanzo "moderato", per quanto più vistose, sono lasciate cadere: la virtù di fra Cristoforo non tocca il cuore di don Rodrigo e la conversione risolutrice, rinviata a più alto livello con Federigo e l’Innominato, non porta la soluzione attesa ma segna solo una nuova tappa. Il romanzo "rivoluzionario" d’una rivoluzione impossibile e il romanzo "moderato" d’una conciliazione menzognera sarebbero altrettanto mistificatori.

Manzoni, che appartiene a un mondo segnato dal trauma della rivoluzione francese e che scrive sentendosi addosso la cappa di piombo della restaurazione, per dare una soluzione al suo romanzo deve cercarla su un altro piano. È solo passando dall’orizzonte degli individui a quello universale che può risolversi la vicenda dei due fidanzati di Lecco. (...) A ben vedere, già dall’inizio "I promessi sposi" è il romanzo della carestia, della terra desolata: dall’apertura del capitolo quarto, quando fra Cristoforo se ne viene da Pescarenico, con quel travelling su immagini scheletriche: "La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita... ". È una natura abbandonata da Dio, quella che Manzoni rappresenta; altro che provvidenzialismo! E quando Dio vi si manifesta per mettere le cose a posto, è con la peste. (...)