"Papà morto di Covid, dicevano che aveva un virus intestinale"

Cristina Longhini ripercorre le tappe della vicenda incredibile di suo padre Claudio, morto nel marzo del 2020

Cristina con il papà Claudio e il suo bambino

Cristina con il papà Claudio e il suo bambino

Bergamo, 21 febbraio 2021 - Claudio Longhini aveva 65 anni quando si è ammalato di Covid nel marzo maledetto del 2020. Agente di commercio bergamasco, in salute e sempre in pista, era andato in pensione nel dicembre del 2019. Tre mesi dopo un rapido precipitare degli eventi davvero terribile, che la figlia Cristina, 39 anni, farmacista a Milano e volto noto del comitato Noi denunceremo, ripercorre per l'ennesima volta, come se questa storia potesse prima o poi trovare un senso.

Cristina, cosa è successo a suo padre? "Ai primi di marzo ha iniziato ad ammalarsi, aveva la febbre, sempre 37.3, 37.4, dissenteria e vomito. Mia mamma, farmacista anche lei, ha subito allertato il medico di base per il quale, però si trattava di un virus intestinale, prescrivendo antibiotici e fermenti lattici. Nulla da fare, in una settimana è peggiorato, mia mamma allora ha richiamato il medico di base, ipotizzando potesse essere Covid visto che eravamo già nel pieno della pandemia, ma per lui rimaneva un virus intestinale".

Quindi cosa avete fatto? "Mia mamma ha chiamato Ats ma si è sentita rispondere che non potevano farci nulla, ha chiamato il 118 ma poiché papà non aveva problemi respiratori non potevano venire. In quei giorni ho sentito mio padre per l'ultima volta... "Chichi, io sto male". Non stava in piedi, la dissenteria era incontenibile, mia madre era disperata e impotente. Io e mia sorella abbiamo fatto chiamate su chiamate per cercare qualche medico che venisse a visitarlo finché non abbiamo trovato il dottor Lepore, medico di base di Bergamo, che si è offerto di visitare papà: aveva l'ossigenazione a 65. Lui stesso ha chiamato l'ambulanza che ha subito portato mio padre in ospedale: era il 12 marzo".

In che condizioni è arrivato? "Polmonite interstiziale bilaterale e tampone positivo al Covid, viene subito messo sotto il casco. Da quel momento non abbiamo saputo più nulla, perché al numero di telefono a volte rispondevano, a volte no. Il 18 marzo l'ospedale ci ha richiamate per dirci che era peggiorato, aveva bisogno di un posto in terapia intensiva. E ci hanno chiesto, come famiglia, di attivarci per cercarlo. Ho fatto appelli su internet, sui social, dappertutto. Ma il posto non si è trovato".

Ormai suo padre era gravissimo... "E' stato intubato ma il giorno dopo, il 19 marzo, la festa del papà, ci hanno chiamato per dirci che ormai l'ossigeno non raggiungeva gli organi periferici. Ma quando è morto si sono pure dimenticati di chiamarci. Sono partita da Milano e ho chiamato le pompe funebri, anche queste da Milano perché a Bergamo in quei giorni erano oberate di lavoro. Nella camera mortuaria non l'avevano nemmeno ricomposto: aveva gli occhi e la bocca spalancati, ero sotto choc. E mi sono sentita dire 'signora, si sbrighi, guardi che fila di carri funebri che c'è...'".

Purtroppo anche i giorni successivi sono stati terribili... "Sì. Quando è morto mi hanno dato un sacco della spazzatura con le sue cose, l'ho aperto dopo due settimane, dentro c'era un pigiama con una enorme chiazza di sangue. Non ho mai saputo cosa gli è successo, la sua cartella clinica è stata sequestrata. Tanti di questi sacchi neri sono stati buttati nei cestini fuori dal cimitero".

Avete potuto almeno dirgli addio? "Con le pompe funebri l'abbiamo portato al cimitero e l'abbiamo lasciato lì. Poi l'8 aprile è arrivata dal Comune di Ferrara la fattura per la cremazione: l'avevano portato lì. Il 18 aprile c'è stata la tumulazione, la benedizione è durata due secondi, noi siamo state scortate all'entrata e all'uscita, senza nemmeno la possibilità di dire una preghiera. Nulla".

Come sta ora, a distanza di quasi un anno? "E' stato tutto così sconvolgente, io ancora vedo mio padre lì sul divano dove l'avevo lasciato. Non abbiamo avuto modo di metabolizzare".

Perché ha aderito al Comitato Noi denunceremo? "Inizialmente volevo condividere il mio dolore, ho scoperto che eravamo una grande famiglia unita da questa tragedia. Poi è nata la class action, vogliamo capire cosa non ha funzionato".

Perché secondo lei Bergamo è stata così colpita? "In quei giorni c'era questa retorica del non fermarsi, c'è stato un gran movimento di persone. Mia mamma ci raccontava di quanta gente veniva in città dai paesini e tossiva, tossiva. E poi nessuno sapeva quali fossero i protocolli, le linea guida per curare le persone a casa ed evitare di farle finire in ospedale. Se mio padre fosse stato curato così, con le bombole dell'ossigeno, l'azitromicina... E poi amncava tutto, non c'erano mascherine. Ricordo che a gennaio 2021, a Milano vendevamo venti, trenta pacchi di mascherine a testa a clienti cinesi, che le spedivano in Cina. Loro stessi ci dicevano 'se quello che c'è là arriva qua, siamo finiti'". 

Cos'è cambiato da allora?  "Adesso si conosce il protocollo per le cure domiciliari, ma non tutti lo seguono. Posso dire di aver salvato un mio cliente, gli ho fatto iniziare il protocollo e quando è andato in ospedale gli hanno detto di fare i complimenti a chi l'aveva aiutato. Porto un bracciale con una dedica, che mi ha regalato per ringraziarmi. Ma ci sono ancora tanti no vax, gente contagiata che va in giro perché si sente bene".