"La mia gioventù da profugo in Villa Reale"

Walter Matulich arrivò a Monza con gli esuli di Istria e Dalmazia: centinaia di famiglie divise da tavolacci e coperte nei loculi delle scuderie

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di Monica Guzzi

"Una domenica, il 16 marzo 1958. Alla stazione di Monza, scendemmo dal treno che era passato da poco mezzogiorno. Valigie e fagotti in mano, salimmo nel mini-bus della linea 4, in corso Milano, destinazione Villa Reale. O meglio una dépendance della Villa Reale, adibita a scuderie in tempi passati e destinata nel secondo dopoguerra a centro raccolta profughi. Accolse profughi delle lande orientali d’Italia, gente proveniente dall’Istria, da Fiume, dal Quarnero, dalla Dalmazia, che la fine dei tragici eventi bellici, siglata dal Trattato di Parigi del 1947, rese poveri, sradicati e raminghi".

Walter Matulich racconta così sulle pagine del “Dalmata”, la storica testata fondata a Zara nel 1866 e oggi organo ufficiale dell’Associazione Dalmati Italiani nel mondo, il suo arrivo a Monza. Aveva 15 anni ed era un profugo. Troppo povero per sentirsi uguale agli altri bambini della città e troppo grande per stare negli stessi banchi dei dodicenni. "A Zara frequentavo la scuola elementare della minoranza italiana, che nel ‘53 venne chiusa - racconta al “Giorno“ -. Fui costretto a passare a quella croata: arrivai alla settima classe, equivalente della seconda media, ma tre anni di scuola croata non mi furono riconosciuti in Italia, dove si studiava anche il latino. Così a 13 anni fui retrocesso in quinta elementare. Poi per fortuna recuperai grazie a una borsa di studio".

Oggi quel bambino ha 78 anni, vive a Chiari, in provincia di Brescia, felicemente in pensione. "Sono andato avanti grazie alle borse di studio, ho fatto la Bocconi e sono diventato dirigente amministrativo di un’azienda meccanica bresciana", spiega.

Ma i ricordi di quegli anni da esule a Monza sono vivissimi. Prima di tutto il trasloco tardivo: la richiesta della sua famiglia di optare per la cittadinanza italiana fu accolta dalle autorità jugoslave solo nel ‘56. Il padre, caporeparto della Luxardo, la famosa fabbrica di maraschino, si era dovuto adattare a lavori più umili. La sua famiglia (i genitori e tre figli), già ospite dal 1956 del Crp di Marina di Carrara, alla fine aveva ottenuto il trasferimento a Monza perché il padre aveva trovato lavoro alla Remington di Milano. "Il nostro alloggio era in uno dei tanti box ricavati negli spazi delle ex scuderie, con pareti divisorie di legno e compensato, a volte semplici coperte. La cosa più brutta era la mancanza di intimità. Andavo a fare la doccia nei bagni pubblici dell’ospedale vecchio, nella mia casa non avevo la possibilità di lavarmi. Mi confondevo con gli operai della Singer. Arrivavo dagli anni del comunismo reale, quando ci si alzava per fare la fila al negozio del pane. L’Italia derelitta degli anni ’50 era sempre meglio della Jugoslavia".

E per un ragazzino c’era addirittura la possibilità di trascorrere qualche momento spensierato. "Certo, il tenore di vita dei monzesi di allora ai miei occhi era irrraggiungibile, il problema dei nostri padri nel centro, tutti quarantenni, era trovare un lavoro. Ma noi giocavamo a pallone anche coi ragazzi monzesi e il parco era un luogo dove dare sfogo alla nostra giovinezza".

Qualche film, il sabato sera, davanti alla televisione della vicina trattoria da Carlo. E l’iscrizione alla scuola media di via Appiani: "Nuovi insegnanti, nuovi compagni di classe, fatica a intessere relazioni umane con coetanei sconosciuti, appartenenti a realtà sociali così diverse dalla mia. Ricordo ancora oggi gli ex compagni di classe, i Brioschi, gli Ongaro, i Bronzino, i Tornagli, i Monguzzi. Non sapevano nulla, né gliene interessava granché, della mia Dalmazia".

I giorni, i mesi, le stagioni nel Centro raccolta profughi di via Boccaccio scorrevano lenti, scanditi dalle preoccupazioni. "Tormentava il miraggio di una casa vera, servizi igienici non più in comune con un centinaio d’altri disgraziati conterranei".

All’ombra della Villa Reale il signor Piero, originario di Parenzo, in Istria, aveva allestito un piccolo spaccio alimentare, mentre la signorina Maria, acquistata una macchina tessitrice, sfornava maglie. Quando non giocavano a pallone, d’estate i ragazzini andavano a tuffarsi nel canale Villoresi, o al cinema Smeraldo, in fondo alla discesa di via Turati: "Una sala cinematografica popolare, con biglietti d’ingresso a bassissimo prezzo. Raggranellando in qualche modo le cento lire, si assisteva alla proiezione di due film, dalle 14 alle 18: film western, di cappa e spada, avventure d’esploratori e pirati". Il direttore del centro sollecitava i profughi a trovarsi un tetto, promettendo le 180mila lire che lo Stato erogava a chi avesse deciso di andare. "Non lo toccava il fatto che le persone non avessero un lavoro".

Meno freddo era don Cairo. Il sacerdote distribuiva ai meno abbienti generi di conforto: "Salumi, mortadella, formaggio, pasta, farina, zucchero, che andavo ritirare nella canonica".

La svolta negli anni ’60, quelli del miracolo italiano. I più trovarono un tetto nelle case popolari di Milano. "La mia famiglia preferì attendere l’assegnazione di un trilocale a Monza". In via Luca della Robbia, quartiere Cantalupo, l’inizio della risalita.

Il resto è storia recente. Oggi Walter Matulich è un testimone vivente della crudeltà della guerra e del totalitarismo, ma è anche un uomo finalmente appagato. Con due figli adulti e una moglie. "Ho sposato una mia ex compagna di scuola di Zara, che era rimasta di là. Me la sono sposata e l’ho portata in Italia, è stata la mia scelta più bella. Ma in Dalmazia sono proprietario di una casetta e ogni estate vado di là...".