Pippo Ingrosso prende la via dell'America: "Il mio addio a Mariposa"

L’esordio come dj e gli anni di "alta fedeltà". Ora, a 65 anni, va a vivere a Miami

Pippo Ingrosso davanti al Mariposa

Pippo Ingrosso davanti al Mariposa

Milano, 2 agosto 2019 - Se volete salutarlo in negozio, avete tempo fino al 10 agosto. Perché il giorno successivo Giuseppe «Pippo» Ingrosso, il «boss» di Mariposa Duomo, si trasferisce in America. A 65 anni insospettabili («chi si nutre di musica è bello vispo» dice) si regala un terzo tempo nella sua vita: «Me ne vado a Miami per stare vicino a mia moglie, che è americana, e ai miei due figli» afferma il responsabile del più famoso negozio di dischi rock a Milano. La rivendita di cd e la biglietteria in Galleria Santa Radegonda però non chiudono: già 3 anni fa era già stato ceduta a un grande promoter musicale, e adesso la gestione passerà nelle mani di Valerio Marzano, braccio destro da 27 anni.

Come è nata la sua avventura nel mondo musicale?

«Prima di gestire il Mariposa ho fatto per 15 anni il disc jockey. Al Panthea di via Carducci ho conosciuto Claudio Cecchetto. È lui che mi ha portato a Radio Milano International dove ho fatto il dj per qualche anno. Poi sono passato a Radio Music 100 di Enrico Rovelli, quale direttore dei programmi. Un giorno Cecchetto mi chiede se l’emittente fosse in vendita: voleva fondarne una tutta sua. E così che nel febbraio del 1981 nacque Radio Deejay, dove sono rimasto nel 1985 lavorando nell’ambito della produzione».

Poi?

«Era nato il mio primo figlio e ho mollato. C’erano riunioni a tutte le ore, finivo alle 2 di notte: io volevo vederlo crescere. Nel 1985 comprai una quota della società Mariposa dal mitico Roberto Fraschini che aveva aperto il primo negozio in corso di Porta Romana 115. A me affidò la gestione del nuovo punto vendita in Duomo».

E che ricordo ha di quegli anni?

«Si vendevano ancora tanti lp ma iniziavano ad arrivare i primi cd. Rifornivamo quasi tutte le discoteche e le radio, non eravamo specializzati in un solo genere. C’erano il reparto per il metal, l’hip hop, la disco: le varie tribù giovanili si guardavano piuttosto in “cagnesco” in negozio».

Quando avete acquisito una identità 100% rock?

«Intorno alla metà degli anni ’90. L’alternative determinava il flusso più importante. Quando uscì il Black Album dei Metallica, nel 1991, in due giorni abbiamo venduto 2mila copie. I volumi allora erano esagerati, nell’ordine di decine di migliaia ogni mese. A Natale avevamo in funzione quattro casse e c’era un addetto alla security per regolare il flusso in entrata dei clienti. C’erano assembramenti mostruosi quando la promozione organizzava in negozio i meet-and-greet, gli incontri ravvicinati fra gli artisti e i loro fan. Abbiamo ospitato Halloween, Gamma Ray, Blind Guardian, il batterista dei Motorhead. Ogni tanto veniva la polizia. Ma non ci sono mai stati problemi: il nostro è sempre stato un grandissimo pubblico, che conosce il significato del rispetto».

Quando la parabola ha cominciato a discendere?

«Dal 2000. C’era chi aveva lanciato “alti lai” quando si era diffusa la duplicazione dei cd. Ma non era niente rispetto a quello che sarebbe venuto dopo, con lo scambio dei file digitali. Un disco oggi fa i fuochi di artificio se vende 50 copie».

L’annus terribilis?

«L’ultimo è sempre il peggiore».

Chi si compra ancora un cd?

«Non solo le generazioni del passato. L’altro giorno è entrato un ragazzino di 12 anni con i capelli lunghi e la maglietta degli Iron Maiden. Io non sono contrario alla fruizione digitale, vorrei solo la remunerazione certa per gli artisti. Altrimenti il destino della musica sarà incerto».

Un cliente famoso?

«Giampiero Ingrassia. È un super-mega fan dei Kiss».

Cosa si porterà in America da Milano?

«Tutti i cd dei Pink Floyd e dei Led Zeppelin. E i ricordi della mia vita».

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro