Sposa bambina: "La madre ha sfidato segregazione e paura per salvare sé e la figlia"

Mara Tognetti, docente di Politiche migratorie alla Bicocca: lavoriamo su questi atti di coraggio per accompagnare i nuovi migranti

Mara Tognetti

Mara Tognetti

Milano, 28 maggio 2018 - «Siamo in un contesto di forte violenza, l’aspetto interessante di questa vicenda è che la madre, la moglie, ha preso coraggio per denunciare questa sistuazione, probabilmente usando anche in modo strumentale una pratica che periodicamente scopriamo essere diffusa fra certe popolazioni e in particolare quando ci sono situazioni migratorie critiche». Mara Tognetti è stata una delle prime accademiche ad occuparsi di migrazioni femminili, autrice di un fortunato libro, “Donne e percorsi migratori” (edito da Franco Angeli). Insegna Politiche migratorie all’Università di Milano Bicocca. Interviene sul caso di Shaila (nome di fantasia), la bambina di 10 anni che viene dal Bangladesh e che suo padre voleva dare in «moglie» ad un nipote di 22 anni. Salvata dalla madre che ha strappato il suo passaporto e quello della figlia.

Un atto di coraggio quello di Malijka, la mamma della bambina...

«Sicuramente. Più che ragionare sulla promessa sposa dovremmo farlo sul coraggio di denunciare la violenza. Già è complesso per le donne in generale, anche quelle apparentemente anticipate e parlo delle autoctone che subiscono violenza ma in questo caso lo è di più se si considera il bagaglio culturale che si porta dietro la coppia. In questo caso va sottolineata la “cristallizzazione” del padre, ossia la non capacità di adattare le proprie abitudini, la cultura al nuovo contesto. Sono indicatori di grande disagio. Spesso questi uomini vivendo in un contesto migratorio che li marginalizza esercitano l’unico potere che gli resta, pretendere il rispetto dalle figlie e dalle donne della famiglia».

Le spose bambine d’Italia crescono, la stima dell’associazione “Trama di terre” è di duemila casi all’anno...

«Sono anche di più, ma spesso non emergono. Talvolta ci si trova davanti a situazioni ancora più complesse, con allontanamenti familiari. Comunque anche una storia come questa deve essere un campanello d’allarme per tutti: dalla stampa agli operatori, fino agli insegnanti».

Come intervenire?

«Dobbiamo continuare a lavorare sulla violenza, formare operatori ed insegnanti in grado di cogliere i segnali deboli. La vera sfida è riuscire a capire quando c’è qualche preallarme. Rendere pubbliche le diverse situazioni senza ledere la privacy delle persone. Prenda gli ultimi casi di cui si è occupata la cronaca, ad esempio la ragazza costretta ad abortire in Pakistan. Lì ha funzionato la rete, gli amici. Creare attenzione, sensibilità, visto che non possiamo fermare la storia e quindi le migrazioni. Naturalmente dobbiamo accompagnare i soggetti migranti in un percorso di inserimento. A volte se la migrazione non è un progetto di successo, il recupero di tradizioni arcaiche diventa l’unico elemento di ancoraggio».

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