di Marianna Vazzana
MILANO
"Quello che è successo al Beccaria è gravissimo ma è un bene che sia emerso. Ora non si resti fermi a puntare il dito contro lo scandalo ma questo sia piuttosto una luce, l’inizio del cambiamento innescato da persone buone che hanno avuto il coraggio di parlare sgretolando un muro d’omertà". Ne è convinta Mariavittoria Rava, presidente della Fondazione Francesca Rava - Nph Italia Ets che all’Istituto penale per minorenni Cesare Beccaria ha dato vita nel 2020 al progetto “Palla al centro“, "percorsi di rinascita per i giovani detenuti" frutto di un accordo di collaborazione con il Tribunale per i minorenni di Milano e il Centro per la giustizia minorile per la Lombardia.
Che situazione ha trovato, quando ha messo piede per la prima volta al Beccaria?
"Terribile. Intanto, un posto chiuso. Troppo. Per definizione il carcere deve essere un luogo di detenzione ma il recupero delle persone può avvenire solo creando un ponte con l’esterno. E io, né come madre, né come avvocato che si occupa di minori, ero mai stata invitata a eventi al Beccaria. Persino le celle erano in condizioni pessime, inadatte a ospitare degli adolescenti. Ci siamo rimboccati le maniche: con i volontari (ce ne sono stati centinaia) e i ragazzi siamo partiti imbiancando le celle. Poi abbiamo ristrutturato la palestra e il giardino, promosso attività di informatica, grafica, web design e arte. Questo nell’ottica di creare un ponte tra dentro e fuori, e ci siamo riusciti, avendo sempre al nostro fianco la presidente del tribunale per i minorenni di Milano Maria Carla Gatto e la direttrice del Centro per la giustizia minorile per la Lombardia Francesca Perrini. I ragazzi devono sentire calore, sapere che c’è una comunità per loro".
Molti sono soli?
"Sì. Il carcere è il tempio del dolore: quei ragazzi sono già fragili, spesso senza genitori vicini e anche senza avvocato, perché quelli d’ufficio li seguono fino alla condanna e non nell’esecuzione della pena, quando è importante difenderli se i loro diritti vengono calpestati".
I ragazzi non si sono mai confidati con i volontari?
"Avevano molta paura. Ma non solo loro: non c’era un sistema che invogliava a parlare, c’era un muro di omertà. L’ho percepito anche quando, un paio d’anni fa, sono stati rubati una decina di computer nuovi dal laboratorio di informatica. I ragazzi non potevano aver colpa (le celle vengono perquisite). Possibile, mi sono chiesta, che possa succedere in carcere?".
Dopo gli arresti, che reazioni ci sono state da parte dei “suoi“ ragazzi, usciti dal Beccaria?
"Ricevo commenti stupiti, non per la situazione venuta a galla ma perché finalmente se ne parla. Io mi auguro che dal Beccaria ora parta il cambiamento e che sia d’esempio anche per altri istituti penali".