Permesso umanitario a un pakistano "Ha lavoro e alloggio, resti a Milano"

Sentenza spartiacque della Cassazione: il livello di integrazione conta più delle condizioni nel suo Paese. I giudici: "Il rimpatrio forzoso gli provocherebbe un trauma emozionale che lo renderebbe vulnerabile"

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di Nicola Palma

"In presenza di un livello elevato di integrazione effettiva nel nostro Paese – desumibile da indici socialmente rilevanti quali la titolarità di un rapporto di lavoro (pur se a tempo determinato, costituendo tale forma di rapporto di lavoro più diffusa, in questo momento storico, di accesso al mercato del lavoro), la titolarità di un rapporto locatizio, la presenza di figli che frequentino asili o scuole, la partecipazione ad attività associative radicate nel territorio di insediamento – saranno le condizioni oggettive e soggettive nel Paese di origine ad assumere una rilevanza proporzionalmente minore". Così la Cassazione civile a Sezioni unite ha motivato la decisione di concedere a un cittadino pakistano il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Una sentenza spartiacque, perché per la prima volta i giudici hanno rivoluzionato il metodo di valutazione per casi del genere: conta più il livello di integrazione in Italia che le condizioni che il migrante ritroverebbe nella terra d’origine in caso di rimpatrio forzato.

Inizialmente, il Tribunale di Milano, al quale A.A. si è rivolto nel 2018, aveva respinto la richiesta del pakistano, non ritenendo credibile il racconto su cui si fondava la domanda di protezione internazionale (una serie di aggressioni subite da parte dei musulmani sunniti per via della sua scelta di frequentare una moschea sciita). Nel 2019, la Corte d’Appello ha confermato l’inattendibilità delle parole di A.A. e negato la concessione dello status di rifugiato, riconoscendo però la protezione umanitaria e rilevando che il rimpatrio avrebbe comportato la perdita di "opportunità apprezzabili sotto un profilo etico-giuridico". Anche perché A.A. ha dimostrato di "volersi inserire nel tessuto socio-economico del Paese ospitante, cercando di formarsi professionalmente e reperendo occupazioni lavorative che, sebbene a tempo determinato, gli hanno consentito di far fronte alle esigenze del quotidiano e di affrontare la spesa per una sistemazione abitativa autonoma". Di conseguenza, il rientro in Pakistan genererebbe "un trauma emozionale tale da esporlo a contesti di estrema vulnerabilità". Una tesi contestata dal Ministero dell’Interno, che si è rivolto alla Cassazione sottolineando che "la concessione della protezione umanitaria deve fondarsi su una valutazione comparativa tra il grado di integrazione raggiunto nel Paese ospitante e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente del Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa comportare una privazione del nucleo ineliminabile dei diritti umani". Detto altrimenti: il Viminale ha chiesto di applicare l’approccio da sempre utilizzato in situazioni simili.

Il ricorso è stato respinto dalla Suprema Corte, che ha citato gli articoli 2 e 3 della Costituzione per sostenere che è nella tutela delle "formazioni sociali ove si svolge la personalità" dell’individuo e nella difesa della "pari dignità sociale" che "trova il fondamento più profondo l’istituto della protezione umanitaria". Una decisione destinata a fare giurisprudenza in futuro.

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