L’ultima battuta di caccia del Lüisìn

Andrea

Maietti

Aveva da pochi giorni compiuto gli ottanta, Lüisìn, quando per l’ultima volta celebrò il primo giorno di caccia. Vento scodinzolò alla catena, quando il padrone si chinò a strofinargli il muso con la mano. Nel buio fitto la compagnia prese verso la Valdora. Il vecchio aveva coperto un buon tratto di strada in macchina per non restare col fiato corto. "Andate avanti, che io resto qui a dirottare bresciani e bergamaschi", disse alla compagnia. Non avrei dovuto venire, pensò seduto al volante, col fucile appoggiato di sghembo contro la portiera, come una sentinella ubriaca. Vento era accucciato sul sedile accanto. Guardava il suo padrone con la lingua penzoloni, le orecchie ritte e gli occhi interroganti. Un fruscio al margine del sentiero, e a Lüisìn si rimescolò il sangue: la legur! Imbracciò la doppietta e uscì dalla macchina col cane. Un trepestio tra i fusti, la scarica di adrenalina nel suo sangue intorpidito. Uno dopo l’altro, i botti istintivi della sua doppietta. Poi la pacca affettuosa sulla testa del cane: "Forza, Vento, va’ e portamela qui, tutta intera". Passarono secondi e poi altri secondi: al vecchio parvero minuti. Dall’alto della costa giunsero improvvisi, a mitragliera, i colpi dei giovani compagni, i loro berci di esultanza: dovevano aver avuto fortuna. Poi solo nebbia e silenzio. Il vecchio tese l’orecchio presago, per sentire meglio, oltre i rantoli del cuore. Un gemito vago, sempre più debole, dal fitto dei fusti di granturco. Il vecchio fece due passi all’indietro per appoggiarsi al tronco di una gaba: "Quest chì l’è no el vers de la legur - rantolò –: l’è la vus del mè can".

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