STEFANIA CONSENTI
Cronaca

La mia sartoria sociale "Così faccio felici altre donne: un lavoro buono e giusto"

Irene Benatti, 40 anni, mamma artigiana, grazie ad un bando del Comune ha aperto una piccola attività imprenditoriale che accende una scintilla creativa nel quartiere.

La mia sartoria sociale "Così faccio felici altre donne: un lavoro buono e giusto"

di Stefania Consenti

"Un quartiere che ha delle grandi fragilità ma anche tante risorse. Come le donne, ("dolcemente complicate" canta Mannoia, ndr), forti e uniche allo stesso tempo, che ho incontrato". Irene Benatti, 40 anni, mamma di uno splendido bambino di nove mesi, laureata in Scienze politiche, ex dipendente di una libreria, l’ha sempre coltivato il sogno, aprire una "sartoria artigianale, lavorare con le mani, non da sola, aggregando altre donne, magari fragili, con un vissuto difficile, magari anche no, ma con la voglia di condividere insieme responsabilità e un lavoro che "dia dignità senza togliere spazio alla famiglia, agli affetti". Ed è arrivata qui, in via Bruzzesi al 5, GiambellinoLorenteggio (GiaLo), quartiere che ha bisogno di ben altro che del "rammendo" di Renzo Piano, stretto com’è fra l’annoso problema delle case popolari, mai recuperate, la voglia di cambiare pelle, con i nuovi insediamenti urbani che promettono case di lusso a prezzi proibitivi e la ricerca di una nuova identità. Irene ha aperto la sua bottega, "Lalibrellule", ha tirato su la "clèr", come dicono sotto la Madonnina, di un progetto di “sartoria creativa sociale“, anche per contribuire alla rivitalizzazione del quartiere, "che è stato il mio per una parte della mia vita, qui ho frequentato le scuole medie, pubbliche, poi sono andata altrove ma adesso sogno di comprare casa, anche se i prezzi stanno esplodendo e questo non è giusto, desidero tornarci a vivere". Irene fa tutto da sola, per ora, realizza capi "unici", abiti, scaldacolli, pantaloni.

Parte dall’idea, il cartamodello, bozzetto e sviluppo taglie, solo tre. Sostenibilità e riciclo la guidano nella ricerca dei tessuti. Il vestire "è espressione del rapporto che ciascuno di noi ha con il proprio corpo, lavorare sull’abito è uno strumento per agire su questo rapporto ed esprimere la propria identità". Un’attività imprenditoriale che è "stata accolta bene, con molta curiosità" nel quartiere, resa possibile, aggiunge Irene "da un bando del Comune del 2020 per la creazione di imprese con impatto sociale. Ho partecipato ad incontri preliminari nella parrocchia di San Curato D’Ars, con il gruppo donne di quartiere, sostenuti dal progetto QuBì della Fondazione Cariplo. Abbiamo iniziato a condividere i primi pensieri e desideri. Grazie a questi incontri è nata la Bottega delle donne, italiane e straniere, un collettivo di artigiane professioniste e non del Giambellino e insieme abbiamo realizzato la “Borsa del Giambellino”, che è stata molto apprezzata".

Un progetto nel progetto. Ma qual è il sogno di Irene? "Vorrei far felici altre donne, ampliare il laboratorio ed assumere...fra pochi giorni sarà l’8 marzo, questa data ci ricorda che dobbiamo ancora lavorare molto per rendere la vita più semplice alle donne. Troppe sono costrette a lasciare il lavoro per poter accudire i figli, trovo che sia ingiusto. Quando ho scelto il nome della sartoria ho pensato alla libellula, un insetto in evoluzione, libero, come dobbiamo essere noi nel gestire lavoro e famiglia". Certo poi non è facile far quadrare tutti i conti, perché l’impresa è tale se poi si pagano stipendi e fornitori. "Devo pensare alla nuova collezione e mi piacerebbe anche avere il tempo di cercare altri finanziamenti per allargarmi, prendere uno spazio maggiore, allargarmi al quartiere". Piccole scintille, per il cambiamento.