La cultura, e quindi l’Italia, "non si cambia con i processi". L’eredità dell’inchiesta Mani pulite, trent’anni dopo, è una riflessione amara che arriva da Gherardo Colombo, in quegli anni magistrato del pool della Procura di Milano. "Non siamo arrivati a scoprire tutto quello che è stato fatto ma solo una minima parte – spiega Colombo, 75 anni – e anche quella minima parte non ha portato a una rivisitazione del rapporto fra cittadini e regole. Anche sotto l’aspetto penale, purtroppo, tutto è finito in poco". Il 17 febbraio è una data simbolica. Che cosa rappresentò quella tappa, l’arresto di Mario Chiesa? "All’inizio il titolare dell’inchiesta era Di Pietro, io fui associato in un secondo momento. Pochi mesi dopo l’arresto di Chiesa, nell’estate del 1992, già emergeva con chiarezza che la corruzione era un sistema. Quello fra imprenditori e pubblica amministrazione era un rapporto sistematicamente accompagnato dalla corruzione, in genere finalizzata al finanziamento illecito dei partiti". L’inchiesta cadde in un periodo storico, la fine della “guerra fredda“. "Per la prima volta un’indagine che riguardava reati commessi da persone ai piani alti della società è potuta proseguire. Prima di allora la politica dei blocchi contrapposti giustificava agli occhi di chi commetteva reati il proprio comportamento. Mani pulite è la conseguenza dei rivolgimenti di allora, non la causa". Quale eredità lascia Mani pulite? "È la dimostrazione che bisogna operare altrove perché cambi il rapporto fra le persone e le regole, perché il processo penale non è lo strumento idoneo. D’altra parte, anche sotto l’aspetto penale tutto è finito in poco, se non in peggio: sono state cambiate le leggi, è stata dimezzata la prescrizione, è stato sostanzialmente abolito il falso in bilancio, si è tolta efficacia probatoria a certe fonti di prova". Come si potrebbe modificare questo rapporto? "Il punto di partenza è la Costituzione, che riconosce universalmente la dignità delle ...
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