Mestieri scomparsi: ago, filo e passione. Ma i giovani sarti a Milano non si trovano più

Rocco Rinarelli, 80 anni, ha formato allievi che oggi lavorano per grandi marchi: "Tutti vogliono fare gli stilisti, pochi sanno cucire a mano"

Milano - ​«Per la moda Milano è il faro. Fucina di talenti, città sempre in fermento, punto di riferimento a livello internazionale. E lo dice uno che ha lasciato il suo paesino, Gerocarne, in provincia di Vibo Valentia, nel 1960 con aghi e forbici in tasca scegliendo a 18 anni di trasferirsi a Milano per diventare un bravo sarto. Oggi ho 80 anni, sono nonno di due nipotini che spesso vengono a trovarmi in bottega e dico che quella scelta è stata la mia fortuna". Alla vigilia della Fashion Week Rocco Rinarelli parla a ruota libera dietro il bancone della sua sartoria di via Terraggio 5 a due passi da Cadorna, "dove continuo a fare il mestiere per cui sono nato. Da solo (i miei figli hanno scelto strade diverse). Ho formato tanti allievi negli anni che oggi lavorano per Dolce&Gabbana, Tom Ford o Brioni. E di settimane della moda ne ho vissute a decine. Ma si parte sempre da ago e filo, lontano dalle passerelle. Ai giovani dico che c’è bisogno di sarti capaci, di mani esperte, di artigiani. Tutti vogliono diventare stilisti ma è il saper fare un abito dall’inizio alla fine a fare la differenza". Metro al collo, davanti ha un rotolo di velluto. Di lato, i suoi cartamodelli. Di fronte, una delle giacche da lui create.

Da chi è stata commissionata?

"Da un compositore milanese che si è trasferito in America. A Milano mi conoscono in tanti, ho iniziato da ragazzo a lavorare in sartoria, prima in zona Ticinese e poi a Cairoli. Fin da bambino ero affascinato da questo mestiere: a 5 anni entravo nelle botteghe dei sarti del mio paese per imparare a cucire. A 10 ho creato i primi pantaloni. Nel 1974 ho aperto la mia attività in via San Giovanni sul Muro e 15 anni dopo, nel 1989, mi sono trasferito in via Terraggio. I miei clienti sono industriali, notai, commercialisti, la Milano bene che desidera abiti realizzati su misura secondo la tradizione. Ma i sarti a lavorare così sono sempre meno: all’Unione milanese sarti siamo rimasti una ventina, e i “giovani“ sono ultrasettantenni. La maggioranza supera gli 80. Rispetto a un tempo è cambiato tutto".

Che cosa è cambiato?

"Al centro non c’è più il prodotto ma tutto quello che gli sta attorno. La pubblicità, la narrazione di un marchio, la capacità di conquistare il cliente con l’idea di un oggetto, più che con l’oggetto stesso. Sono cambiate anche le sfilate: una volta gli addetti ai lavori puntavano al miglioramento generalizzato, oggi c’è la corsa a essere i primi nella percezione della collettività. Più un brand ha valore nel sistema, più alza il prezzo degli abiti. La moda è un’industria, ed è un bene che traini il Paese. Ma non sempre al costo più alto corrisponde la qualità migliore".

Quanto impiega, lei, a realizzare una giacca?

"Mi ci vuole anche una settimana mentre i grandi brand riescono ad arrivare al prodotto finito in molto meno tempo. C’è un abisso. Si lavora in maniera diversa: nel secondo caso, tanti lavoratori si danno da fare come in una catena di montaggio. C’è chi è addetto a cucire, chi ad assemblare. E so per certo che i sarti sono molto richiesti dagli stilisti. I giovani che cercano di entrare in questo mondo dovrebbero puntare sul saper fare, a imparare il mestiere. Chi cuce a mano ha più esperienza, sa valutare le consistenze dei materiali, sa indicare allo stilista se un’idea può funzionare o meno, perché davanti al disegno già immagina la realizzazione del capo".

Si assottiglia il confine tra moda maschile e moda femminile: prende piede il “genderless fashion“, abiti adatti sia agli uomini e sia alle donne. Che ne pensa?

"Non è una novità. Di “unisex“ si parla dagli anni Sessanta. Il fatto è che la moda si adatta alla realtà e, nello stesso tempo, la realtà si trasforma anche grazie alla moda, perché la moda è ispirazione. Nel mio piccolo continuo a produrre abiti tradizionali, tenendo sempre a mente una cosa: un conto sono le passerelle, un altro la vita di ogni giorno. Da sempre modelle e modelli rappresentano un ideale, vestono un concetto, l’idea dello stilista che prende forma in un assemblaggio di stoffe. Le tendenze che si creano poi vanno adattate alla vita di tutti i giorni, alle persone comuni. Ed è solo a questo punto che la moda diventa davvero di tutti".

 

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