Coronavirus, team medico al Niguarda: "La stanchezza? Per noi è un lusso"

Massimo Puoti dirige il reparto Malattie Infettive del Niguarda: "Non tutte le vittime sono fragili"

Sopra, il team che forma il reparto Malattie Infettive del Niguarda

Sopra, il team che forma il reparto Malattie Infettive del Niguarda

Milano, 5 aprile 2020 - «La stanchezza è un lusso che non ci possiamo concedere». Ormai da settimane l’ospedale Niguarda di Milano è uno dei centri più interessati dall’emergenza Covid-19. Tra i medici in prima linea c’è anche Massimo Puoti, direttore del reparto di Malattie Infettive, che ha dipinto il quadro dell’epidemia vista dall’interno, da chi ogni giorno indossa mascherina e guanti e scende sul «campo di battaglia». Sono undici i medici del reparto, con i quali stanno facendo squadra decine di altri specialisti del Niguarda, impegnati su centinaia di pazienti infettati dal Coronavirus. Decine di medici che «ogni mattina si devono alzare e inventare qualcosa per dare il meglio».

Tra turni massacranti di dodici ore per almeno sei giorni su sette. E non parlate a Puoti di «pazienti fragili» . «Troppo spesso ho sentito queta espressione mentre si commentano i numeri: si dice che la gran parte delle vittime soffre di patologie pregresse; in realtà parliamo di settanta-ottantenni con pressioni alta, diabete e magari un bypass. Solo problemi che hanno moltissimi anziani nel nostro Paese. Queste persone avevano una vita sociale vera e piena: vederli morire è distruttivo esattamente come accade per i più giovani». 

Dottore, come state voi medici?  «Facciamo il mestiere più bello del mondo ma purtroppo una situazione come questa è pesante da gestire. Una persona entra, ci parli, sta abbastanza bene. Pochi giorni, a volte ore, e tutto precipita. È frustrante».

Secondo lei a che punto dell’epidemia siamo? «Facendo i dovuti scongiuri noto una stabilizzazione del numero dei nuovi accessi, forse addirittura un leggero decremento. I sacrifici di tutti cominciano a vedersi».

Ci sono particolari criticità? «No. Nessuno prima pensava che fossimo in grado di riorganizzarci con questa velocità. E senza rinunciare alla vocazione dell’ospedale, dai grandi traumi alla neurochirurgia. Basti pensare che dal 21 febbraio sono stati effettuati una decina di trapianti di fegato». 

Quali sono le vostre necessità?  «Le donazioni sono sempre benvenute. Servono tente apparecchiature come ecografi e tecnologie per l’analisi dei dati. I laboratori lavorano bene ma di solito abbiamo anni per capire come evolve una malattia... oggi invece è tutto diverso». 

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