Conte, l’insulto alla mediocrità alla conquista di Palazzo Te

Mantova, l’avvocato del jazz in uno dei pochissimi (e imperdibili) concerti riceverà il premio L’Arlecchino d’oro

Paolo Conte l’"Avvocato Azzurro" a 84 anni si esibirà nello splendido Palazzo Te

Paolo Conte l’"Avvocato Azzurro" a 84 anni si esibirà nello splendido Palazzo Te

Mantova - Se Dio c’è, come passa la giornata? "Ascoltando Art Tatum nella speranza, prima o poi, di imitarlo". Dietro il baffo sornione, Paolo Conte ha sempre pronta una battuta d’emergenza legata a quel jazz che gli ha segnato la vita. E che domenica bordeggia a Mantova planando col suo aguaplano tra i flutti dell’esedra di Palazzo Te. Nella vita si può fuggire "verso" e fuggire "da".

Conte sente sempre la necessità di fuggire "per". Per avere una faccia in prestito e vivere una seconda vita, per abbandonarsi almeno col pensiero ad amori leggiadri e irraggiungibili, per trovare in una leziosa giacca nuova il segno distintivo da quella "folla anonima, che rende anonimi, quasi invisibili", come canta in “Eden“.

"Non ho mai voluto essere un cantore della provincia" assicura a chi glielo chiede. "Posso cercare di trovare della provincia degli insegnamenti perché la provincia è più leggibile per uno che fa il mio mestiere. È più sagomata sia nel personaggio che nei personaggi. Così racconto semplici storie quotidiane, anche se proiettate in un mondo più colorato e teatrale. Nel fare questo mi sono sempre servito della tecnica del pudore e mi risulta difficile non servirmene ancora". Maestro di un’eleganza perduta capitato quasi per uno scherzo del destino a navigare questi nostri anni distratti, l’uomo del Mocambo sogna di cantare fino a novant’anni "come Charles Trenet", ma ad 84, complice la pandemia, ha diradato ulteriormente gl’impegni rendendo appuntamenti come quello di Palazzo Te eventi assoluti. 

A Mantova, fra l’altro, l’Avvocato Azzurro riceverà l’Arlecchino D’Oro, il riconoscimento della Fondazione Artioli che affianca così il suo nome a quello di altre grandi personalità della musica e dello spettacolo premiate quali Marcel Marceau, Dario Fo, Giorgio Albertazzi, Carolyn Carson, La Fura dels Baus, Brian Eno e Ennio Morricone. 

Una canzone americana che avrebbe tanto voluto scrivre lui? "Probabilmente ‘Let’s face the music and dance’ di Irving Berlin per le luci che emanano dall’alternanza di toni minori e maggiori, ma pure ‘Stardust’ di Hoagy Carmichael, ‘Kansas City man blues’ di James P. Johnson o, scendendo a sud, ‘A media luz’ di Edgardo Donato" dice, ammettendo che sono tante pure quelle fra cui gli piacerebbe rovistare nell’amato repertorio italiano. 

"Fra le mille, ‘Na sera e’ maggio’ di Pisano e Cioffi, e ‘Ma l’amore no’ di D’Anzi e Galdieri". Quando i tinelli erano marron e la pioggia bagnava gl’impermeabili ma non l’anima, qualcuno di là dalle Alpi disse che Paolo Conte era un insulto alla mediocrità. E a lui il complimento piacque. Piacque al punto da adottarlo come chiave di quel suo mondo, per dirla col Times, "di allucinazioni, di amori consumati a metà, e di lunghe, solitarie, notti nei più oscuri angoli dei bar". Già perché in questi tempi che hanno perso la voglia di sognare, la sua musica assomiglia un lampo al magnesio su altri uomini e altre epoche, un viaggio alla scoperta di notti friabili e pensieri scaduti, delle illusioni ad occhi aperti di "angeli stregati da infinita allegria".