SALVIAMO L’AUTOMOBILE EUROPEA, UN ALLARME DA ASCOLTARE

Migration

SALVIAMO L’AUTOMOBILE europea. Il grido di forte preoccupazione che viene dall’industria automobilistica, italiana e continentale, e dalle filiere sottostanti, per le conseguenze del piano ’Fit for 55’ predisposto dalla Commissione Ue, non va per nulla sottovalutato. Purtroppo, come al solito, in Italia la discussione sulle grandi opzioni economiche, come è quella sulla trasformazione in chiave green dei sistemi produttivi, prende forme di scontro ideologico, mentre questo tipo di questioni richiedono il massimo del pragmatismo. Vediamo di usarlo qui, nel capire i termini del problema. Dunque, è stabilito che le emissioni di biossido di carbonio delle auto prodotte nel Vecchio Continente dovranno diminuire, rispetto al 2020, del 55% entro il 2030 e del 100% entro il 2035. Ergo, entro 14 anni da ora le quattroruote o saranno full elettric o non saranno.

Tutto questo in nome di un obiettivo giusto: rendere la mobilità totalmente sostenibile dal punto di vista ambientale. Bene. Ma non basta perseguire un buon fine, occorre che anche i mezzi per realizzarlo siano altrettanti giusti. E qui, a quanto pare, casca l’asino. E sì perché la trasformazione di un comparto industriale complesso come è l’industria dell’auto non si fa schiacciando un pulsante, non è roba da offon. E poco più di un decennio può sembrare al profano un tempo congruo, ma non lo è. "Non ci sono le condizioni per fare quello che il piano europeo prevede", dice Marco Bonometti, che oltre ad essere il presidente degli industriali lombardi e è anche, con la sua Omr, un esponente di punta della filiera dell’automotive. "L’Europa deve confrontarsi con gli altri continenti se non vuole rimanere isolata e distruggere la propria industria, procurandosi uno svantaggio competitivo incolmabile a tutto vantaggio di chi nel mondo inquina impunemente", spiega l’industriale bresciano. Della stessa opinione è Riccardo Ruggeri, manager di lunga esperienza, ex Fiat: "Solo la Cina ne beneficerà". Ruggeri suggerisce di considerare il quadro più generale, che per il combinato disposto tra le accentuate sensibilità green, gli effetti della pandemia in termini di riduzione della mobilità commerciale e la riduzione della capacità di spesa delle classi medie, vede i volumi di produzione e vendita destinati a calare vistosamente, il che rende fragile l’industria continentale dell’automotive. E la sua non è solo una previsione: nei primi sei mesi dell’anno le immatricolazioni in Europa sono state un quarto di meno dello stesso periodo del 2019, pre Covid, il che significa quasi 2 milioni di veicoli in meno.

Il Financial Times, poi, attacco il piano Ue perché, non tenendo conto dei tempi lunghi dei cicli produttivi, dalla progettazione fino alla produzione, mette a rischio gli investimenti e deprime l’innovazione. Insomma, non si tratta di condannare gli intenti, ma di analizzare con freddezza le conseguenze. E siccome stiamo parlando di un pezzo non indifferente di Pil e di milioni di posto di lavoro, non si può essere ideologicamente schematici. Cosa fare, allora? Due cose, prima di tutto. La prima è concertare con i produttori e gli esponenti delle varie filiere i tempi e i modi della realizzazione del target CO2 a zero. E questo, possibilmente, nel quadro di una più vasta negoziazione a livello planetario (l’Italia ha la presidenza del G20, si può adoperare). La seconda cosa da fare è spingere sui carburanti rinnovabili a basse o ancor meglio zero emissioni, sapendo che il motore endotermico verrà comunque prodotto altrove per molto tempo ancora. Per realizzare questi due obiettivi, occorre una politica industriale europea, oltre che una politica energetica, che indirizzi e sostenga gli investimenti avendo come fine ragionevole condivisa transizione delle aziende. Henry Ford amava dire che c’è vero progresso quando i vantaggi di una tecnologia diventano per tutti. Sarà il caso di fare un’analisi costi-benefici del piano ’Fit for 55’, per capire se in questo caso il vecchio avrebbe da ridire.

twitter@ecisnetto