Trent'anni di violenze sulle donne e femminicidi: "Siamo sempre abbandonate"

Dove manca lo Stato? E cosa può fare una donna in pericolo? Le testimonianze delle vittime e i dati di una tragedia che sembra irriducibile

Illustrazione di Arnaldo Liguori

Illustrazione di Arnaldo Liguori

Segregate a condizione di prigioniere in casa, annichilite, mandate all’ospedale e, in alcuni casi, al cimitero. Per mano di mariti, compagni, familiari e conoscenti, per lo più. La lunga lista di maltrattamenti, abusi, violenze fisiche o psicologiche e stupri condotti sulle donne, in quanto donne, non rappresenta un insieme di fatti isolati.

Non a caso la sociologia ha iniziato a parlare di “femminicidio” – al singolare – anche in quanto “annientamento morale della donna e del suo ruolo sociale”. E i dati degli ultimi decenni confermano una tendenza irriducibile. Le ferite lasciate da questo femminicidio lasciano traccia nelle statistiche nazionali, nei verbali della polizia, segnano cicatrici nelle vittime, nelle madri, nei padri, e tramandano fragilità indelebili ai figli.

Cronaca di una violenza

Il ricordo di Beatrice Fraschini torna al giugno 2019, a quei quattro giorni da incubo in un appartamento in via Biella a Milano, quartiere Barona. Segregata in casa e picchiata dal fidanzato, il "guru del corallo" Giacomo Oldrati, chiamato così perché in passato drogava le vittime con una sostanza ricavata dai funghi del corallo. "Si era fissato che lo avevo tradito – racconta – a un certo punto mi ha spogliata e messa nella vasca da bagno con l'acqua fredda per farmi confessare. Ha provato ad annegarmi e, siccome reagivo, continuava con pugni e calci alla testa". Beatrice ha trovato il coraggio di scavalcare il balcone al secondo piano. È riuscita a raggiungere la strada e si è rifugiata in un panificio, chiedendo aiuto.

Giacomo Oldrati, sotto processo anche per maltrattamenti nei confronti di un'altra ex fidanzata, è stata condannato in appello a quattro anni di carcere. Beatrice torna alle origini di quel rapporto tossico, che ha rischiato di finire in tragedia: "Lui cercava di isolarmi e di esercitare un controllo totale su di me – prosegue  anche quando è passato alle violenze fisiche lo giustificavo sempre".

"Gli atteggiamenti manipolatori seguono sempre lo stesso schema – sottolinea Beatrice – e pur di mantenere viva una relazione si minimizzano o giustificano certi atteggiamenti". Beatrice, volontaria della Croce Verde Baggio, ora aiuta le donne vittime di violenza: "Spiego loro che è fondamentale non isolarsi e chiedere aiuto senza avere paura dei giudizi degli altri. La cosa più difficile da sopportare è l'accusa che in questi casi viene rivolta alle donne: "Te lo sei scelto tu".

Due madri, due battaglie

Beatrice Fraschini è riuscita a salvarsi e a costruire una nuova vita. Di tante altre donne, invece, restano solo foto sbiadite e il dolore dei familiari, rabbia e senso di abbandono. Sentimenti cristallizzati nonostante lo scorrere del tempo. "Mia figlia Monia è stata uccisa nel 1989 dal suo fidanzato – racconta Gigliola Bono – lei non c'è più, lui ha fatto sei anni di carcere e ora ha una nuova famiglia, ha dei figli". Monia Del Pero fu assassinata a 19 anni nel Bresciano. Strangolata, spogliata e messa in sacchi della spazzatura da Simone Scotuzzi, che poi la nascose nelle condutture di scolo del fiume Mella.

"Monia era una bambolina pesava 40 chili, era alta 1,50", racconta Gigliola Bono. Dal 2006 ha intrapreso una battaglia legale contro lo Stato "che abbandona le famiglie delle vittime di violenza", ma la causa di questa madre che lotta a nome di tutti i parenti alle prese con un dramma come il suo è rimbalzata da un Tribunale all’altro. "Se lo Stato non è in grado di tutelare queste ragazze deve pagare – spiega – come succede per le vittime di mafia". La sua è una riflessione amara. "Anche con il Codice rosso una donna non è protetta, perché quando denuncia rischia di essere uccisa".

Una sensazione di ingiustizia subita che accomuna i familiari delle vittime. Giusy Ghilardi sta crescendo i due nipoti, rimasti soli dopo che la mamma, Daniela Bani, è stata ammazzata dal marito, Mootaz Chaambi, a Palazzolo Sull'Oglio il 20 settembre 2014. "Il più grande era in casa quando mia figlia è stata uccisa - racconta - adesso ha 15 anni ed è un ragazzino fragile, si porterà sulle spalle questo peso per tutta la vita".

Le 33 pagine di autopsia sono un racconto dell'orrore. "Daniela si è difesa fino all'ultimo – sottolinea Giusy – aveva le mani tagliate. Ha fatto una fine che non riesco neanche a descrivere. Noi siamo stati lasciati soli, quell'uomo è scappato in Tunisia ed è stato arrestato tre anni fa. Non sappiamo più nulla, non sappiamo neanche se è ancora in carcere. Io ho due minorenni da tutelare".

Monia Del Pero (a sinistra) e Daniela Bani (a destra)

Dati, cause, soluzioni

“La circostanza per cui le donne sono oggetto di violenza è connaturata all’essenza umana, alla sua malvagità”, sostiene l’avvocato penalista Alessandro Continiello. “Da questo presupposto non si scappa. Tuttavia, si può fare prevenzione sia sul fronte legislativo, introducendo nuovi reati e inasprendo le pene, sia su quello dell’educazione, a partire dalle scuole”.

Nel 2019 è stato approvato il cosiddetto Codice Rosso, cioè un insieme di norme a tutela delle donne che subiscono violenze, atti persecutori e maltrattamenti. La legge ha creato una corsia preferenziale per denunciare i casi di violenza e per portarli all’attenzione dei pubblici ministeri. Inoltre, ha introdotto alcuni nuovi reati, come il revenge porn, e ne ha inasprito o esteso altri.

Benché abbia rappresentato un passo avanti, il Codice Rosso ha diversi limiti. Alcune procure hanno segnalato che a causa dell’altissimo numero di segnalazioni che arrivano ogni giorno, spesso è difficile concentrarsi sui casi più gravi. Servirebbero, insomma, più fondi e risorse dedicate. Per di più, non sempre le misure cautelari – come il divieto di avvicinamento – sono sufficienti a proteggere le vittime, che in alcuni casi sono costrette a nascondersi nelle case rifugio.

La difficoltà nel proteggere le donne si riflette nei dati. Negli ultimi trent’anni il numero di uomini vittime di omicidio volontario è crollato (da 4,0 a 0,6 ogni 100.000 abitanti). Invece, il numero di donne uccise è diminuito a ritmi molto lenti (da 0,6 a 0,4), fino a stabilizzarsi dal 2014. Nell’ultimo anno è leggermente aumentato.

La stragrande maggioranza degli stupri e delle violenze viene commessa da persone che si conoscono. Stessa cosa vale per i femminicidi. Il 92 per cento delle donne uccise nel 2020 conosceva il suo assassino: nel 58 per cento dei casi era il partner o l’ex, nel 25 per cento un altro parente, nel 9 per cento un altro conoscente. Questa dinamica è importante per capire la difficoltà nella denuncia e il fatto che non esiste “un tempo giusto” per denunciare (il limite in Italia è fissato a 12 mesi da quando la violenza è stata commessa).

Tra l’altro, questa natura “familiare” e “parentale” dei femminicidi si amplifica ogni anno che passa. Nel 2005 gli omicidi commessi da sconosciuti erano il 34 per cento, oggi sono meno dell’8 per cento. È in atto, insomma, un cambiamento storico e culturale che richiede interventi soprattutto nei contesti familiari. La prevenzione “sulla strada”, benché importante, è efficace solo fino a un certo punto.

“Il primo obiettivo è riuscire a dare un aiuto economico o un lavoro a queste donne”, afferma Paola Radaelli, presidente dell’Unione nazionale vittime, “perché spesso vengono emarginate dopo aver subito violenze. Una donna indipendente – soprattutto dall’ambito familiare – non viene sottomessa”.

Ma questo non basta, perché spesso “i figli sono le vittime collaterali delle violenze”, spiega il penalista Continiello. Pertanto, “qualora ci fossero delle avvisaglie, è importante che le figure sentinella, come le maestre o i pediatri, possano intervenire e segnalare i fatti”.

La cosa prioritaria non è la denuncia, ma cercare un aiuto. È fondamentale, conclude Radaelli, che le donne “contattino associazioni come la nostra o i centri antiviolenza. Attraverso di noi, possono essere supportate da psicologi e avvocati. Ma finché non chiedono aiuto, purtroppo, non possiamo fare nulla”.

Il numero della rete nazionale anti violenza e stalking è 1522. Quello dell’Unione nazionale vittime è 348 240 1371.