SIMONA BALLATORE
Cronaca

L'arcivescovo Delpini ricorda Martini 10 anni dopo: "La vicinanza antidoto alla violenza"

Il presule di Milano ricorda l’eredità del suo predecessore: "Sapeva ascoltare tutti con pazienza: gentilezza e cultura i suoi tratti. Riusciva a farti sentire la voce di Dio che parla nel silenzio"

Mario Delpini

«C’è una crisi della speranza. Serve una risposta corale delle persone sapienti, credenti e non, per restituire fiducia". È l’invito dell’arcivescovo di Milano Mario Delpini, a dieci anni dalla morte del cardinale Carlo Maria Martini, che richiamava all’impegno i "pensanti" e si appellava al dialogo.

Martini entrò in città e nei frenetici anni Ottanta con una lettera spiazzante sulla ’Dimensione contemplativa della vita’. Che lei ha richiamato per questa ripartenza. Quali le sfide della Milano di allora e di quella del post Covid?

"Negli anni Ottanta c’era la difficoltà di reggere un’istituzione molto compatta, radicata, fino forse a spegnere lo slancio spirituale. L’intuizione di Martini è che le persone hanno bisogno di una dimensione contemplativa. Non si tratta solo di un richiamo alla dimensione sociale, ma di accompagnare le persone all’incontro personale con la parola di Dio e con il silenzio in cui Dio può parlare. Un richiamo decisivo anche oggi, in un momento di crisi della speranza: l’Occidente è minacciato di morte perché non ha buone ragioni per vivere, per sperare, per guardare con fiducia al futuro".

Come ritrovarla? Allora c’era il terrorismo. Oggi la guerra.

"L’enfasi sull’individualismo e l’inclinazione a cercare nella solitudine la propria sicurezza o nella gratificazione personale il benessere inducono fatalmente a un ripiegamento su di sé e a una scarsa speranza. Sarebbe interessante che tutti coloro che hanno responsabilità per la società facciano la loro parte. La Chiesa, che deve annunciare una speranza di vita e di vita eterna; la politica, che deve costruire una società in cui sia desiderabile abitare per i rapporti buoni, la difesa dei deboli, la qualità della vita; la scuola, che può essere mediatrice non solo di qualche nozione o abilità operativa, ma di un umanesimo che consenta il rispetto vicendevole e un’interpretazione critica delle emozioni.

Penso che per restituire fiducia e speranza all’Occidente e alla nostra società sia necessario che venga resa comprensibile una promessa di Dio".

Prima di entrare in Duomo, Martini chiamò tutti a essere «operatori di pace». Chi sono oggi e chi manca all’appello?

"Gli operatori di pace sono molti in città. Sono gli intellettuali che apprezzano le culture dei popoli e che rimangono sconcertati dalle guerre e dalle tensioni meschine che talvolta dividono i popoli. Persone generose nelle opere di carità e solidarietà e che costruiscono la pace prendendosi cura delle condizioni di vita dei più poveri in tanti paesi del mondo. Io credo che in tante parti del mondo si pensi a Milano e alla diocesi come al luogo da cui vengono tanti aiuti, che siano per la sanità, la scuola, l’alimentazione. Operatori di pace sono le persone di preghiera che invocano l’aiuto di Dio che illumina i cuori degli uomini responsabili dei popoli. Forse manca la coralità, che tutte queste persone di buona volontà stiano insieme, trovino il modo di dire una parola condivisa, di esprimersi in modo incisivo. E forse è compito della politica creare quella coralità".

In un clima di tensioni sociali, di violenza domestica e di genere, cosa si può fare di più?

"Sono impressionanti le manifestazioni di violenza, fino all’omicidio, al femminicidio, fino all’infanticidio, fino all’aborto. Tante forme in cui la vita è soppressa per reazioni istintive, violente, o per paura. Cosa si può fare di più? Io non ho delle ricette. Però forse qualcosa che può essere di aiuto è quello che raccomando come il ’buon vicinato’. Che nessuno sia solo, che nessuna coppia sia un nucleo isolato. Che i vicini di casa non siano presenze fastidiose e invadenti, ma neppure indifferenti. C’è una tessitura di rapporti ordinari che probabilmente può prevenire certi esiti drammatici. Soltanto la prossimità può rendere sopportabili certe sofferenze o affrontabili certe paure".

In cosa il cardinale Martini le ha lasciato maggiormente il ’segno’?

"Ricordo il suo lasciarsi interrogare dalla Scrittura, ad ogni pagina, che diventa oggetto di un’analisi che mira a non sovrapporre le proprie aspettative a quello che ha da dire il testo. È una eredità di cui sono grato. Poi ci sono tratti che mi hanno colpito: la gentilezza come forma di rispetto per ogni persona, la sua pazienza nell’ascoltare. E motivi per cui ho grande ammirazione, sapendo di non poterlo imitare. Nella biblioteca in arcivescovado la parte dei suoi libri occupa uno spazio più grande di quello di Sant’Ambrogio e di Sant’Agostino: è straordinario quanto abbia pubblicato. Libri spesso frutto di esperienze internazionali. Il suo prestigio ha indotto molti a chiamarlo e lui a rendersi disponibile".