Coronavirus a febbraio, altro che paziente 1: un milanese su 20 era già positivo

Contagiati prima del caso di Codogno. E' il risultato di uno studio sugli anticorpi dei donatori di sangue del Policlinico di Milano

Coronavirus

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Milani, 21 maggio 2020 - Sono passati tre mesi dal 20 febbraio, quando l’intuizione di un’anestesista dell’ospedale di Codogno portava alla scoperta del “paziente 1“, nel senso del primo contagiato “autoctono” dal coronavirus in Lombardia (e anche in Italia e in Europa, dove i criteri di “tamponamento“ indicati all’epoca dall’Oms avevano consentito di scoprire solo alcuni focolai riconducibili alla Cina). Ma in quei giorni un milanese su 20 aveva già sviluppato gli anticorpi alla Sars 2. Le indagini retrospettive della task force regionale hanno collocato l’esordio dei sintomi di oltre 500 lombardi e di 46 milanesi poi risultati positivi a fine gennaio, ma la prima vera conferma scientifica sul contagio sommerso che ha preceduto l’esplosione dell’epidemia arriva da uno studio sugli anticorpi dei donatori di sangue del Policlinico di Milano.

La ricerca, pubblicata su medrxiv.org in “pre-print” (un passaggio che precede la revisione e poi diffusione sulle riviste scientifiche), progettata e coordinata da Daniele Prati (foto) e Luca Valenti del dipartimento di Medicina trasfusionale del Policlinico insieme a Gianguglielmo Zehender della Statale e ad altri ricercatori anche del Sacco e dell’Ieo, si è concentrata su un campione di circa 800 donatori sani che frequentano il centro della Ca’ Granda (dove ogni anno donano il sangue più di 40mila persone), che hanno donato tra il 24 febbraio e l’8 aprile, cioè dall’inizio dell’epidemia alle prime settimane di lockdown.

Un’indagine epidemiologica, effettuata anche sui campioni di sangue archiviati nella Biobanca del Policlinico, «una raccolta sistematica che è importantissima su tanti fronti - ricorda Valenti –, primo di tutti la ricerca». I ricercatori hanno cercato sia le IgM (che indicano un’infezione recente) che le IgG (che rappresentano la memoria immunitaria a lungo termine) con un test sierologico dei più attendibili al momento (specificità del 98,3% e sensibilità del 100% agli anticorpi del SARS-CoV-2). «All’inizio dell’epidemia - spiegano – la sieroprevalenza era del 4,6%»: cioè un donatore su 20 era già entrato in contatto col virus, sviluppando anticorpi.

Nelle settimane del “distanziamento” «c’è stato un aumento progressivo», fino al 7,1% con limiti di confidenza (la punta dell’intervallo di stima di un parametro) al 10,8%, soprattutto per le IgG, le immunoglobuline che tracciano un contagio antico, e soprattutto tra i donatori più giovani, mentre le IgM (spia d’infezioni recenti) erano associate soprattutto ai più anziani. Il lockdown, concludono, ha aiutato soprattutto i giovani a sviluppare un’immunità a lungo termine. Uno degli scopi dello studio era raccogliere elementi sui fattori di rischio e i parametri di laboratorio associati al virus: in tutti i donatori positivi agli anticorpi sono state osservate alterazioni nella conta delle cellule del sangue e nel profilo lipidico, indizi che in futuro potrebbero aiutare a inquadrare gli asintomatici. 

L’altro scopo era indagare la presenza del virus tra adulti asintomatici in una delle zone più colpite: lo studio del Policlinico ha prodotto «la prima conferma scientifica che nell’area metropolitana c’era un sommerso di persone contagiate già prima dei primi casi di malattia conclamata - chiarisce Daniele Prati, direttore del centro trasfusionale del Policlinico -. Ma ci dice anche che siamo molto lontani dall’immunità di gregge».