Brescia, uccise la moglie: fa ricorso e blocca i fondi per i familiari della vittima

L'uomo, latitante dal 2014, ammazzò con 37 coltellate Daniela Bani a Palazzolo sull'Oglio

I rilievi il giorno dell'omicidio

I rilievi il giorno dell'omicidio

Palazzolo sull'Oglio, 13 novembre 2018 - Un nuovo schiaffo per una famiglia rimasta «senza giustizia», che assume la forma di un ricorso di 38 pagine con il quale l’uomo latitante in Tunisia, condannato in primo grado e in Appello per l’omicidio della moglie, Daniela Bani, si rivolge alla Cassazione chiedendo di annullare le sentenze. Fuggito all’estero dopo il delitto a Palazzolo sull’Oglio, nel Bresciano, il 37enne tunisino Chaanbi Mootaz non ha mai scontato un giorno di carcere, il mandato di arresto internazionale emesso nei suo confronti è rimasto finora lettera morta. E il ricorso alla Suprema Corte presentato dal suo difensore, altra beffa, impedisce ai genitori della donna uccisa il 22 settembre del 2014 con 37 coltellate di accedere ai fondi dello Stato per le vittime di reati violenti, erogati solo quando una sentenza diventa definitiva.

«Quando ho saputo del ricorso stavo per svenire, perché eravamo convinti che almeno sul fronte processuale la vicenda fosse conclusa, che dopo essere stato condannato a 30 anni e a versare un risarcimento che non abbiamo mai visto non avrebbe avuto il coraggio di fare anche questo passo», spiega Giuseppina Ghilardi, la madre di Daniela, che assieme al marito sta crescendo i figli di 7 e 11 anni della coppia. «È come se nostra figlia fosse stata uccisa un’altra volta - prosegue - e le ferite si riaprono. Daniela con quell’uomo ha vissuto sette anni da incubo, abbiamo vissuto una tragedia annunciata». A scatenare la violenza del tunisino contro la moglie sarebbe stata la gelosia. L’ha ammazzata mentre si trovava in casa, in un’altra stanza, anche uno dei figli, Youseff, che ha descritto le sue sensazioni in un tema scolastico letto in aula nel corso del processo d’appello. Poi ha preso l’aereo ed è tornato nel Paese d’origine, dove vivono i familiari e dove, finora, è rimasto impunito e libero anche di pubblicare su Facebook pensieri dedicati alla moglie e foto dei figli, approfittando di un «vuoto diplomatico» con accordi italia-tunisia in tema di giustizia che risalgono al lontano 1967. A nulla è servito un incontro dei familiari con l’allora sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, un’interrogazione parlamentare e lettere all’ambasciata tunisina. Intanto i genitori di Daniela continuano a ricevere squilli da numeri tunisini, e raccontano anche un episodio: davanti al loro garage in passato sono stati deposti mazzi di rose e calle bianche da una mano anonima.

«Torniamo a rivolgere l’appello al nuovo Governo perché si dia da fare», spiega l’avvocato Silvia Lancini, che assiste la famiglia assieme all’Unione Nazionale Vittime, associazione presieduta da Paola Radaelli. Nel ricorso in Cassazione Chaanbi Mootaz si appella a cavilli. Contesta il decreto di latitanza sostenendo «l’incompletezza delle ricerche» e la «mancanza dell’elemento della volontarietà» della fuga: in sostanza, secondo la difesa, le autorità italiane non hanno fatto abbastanza per rintracciarlo in Tunisia, e non ci sono prove che lui abbia voluto sottrarsi alla cattura. Nonostante il racconto del figlio e altre testimonianze, solleva dubbi sulla sua presenza in casa quando Daniela fu uccisa. E arriva a sostenere che non ci sono «prove documentali» sulle nozze in Tunisia, che gli sono costate l’aggravante del vincolo matrimoniale. «Ci piacerebbe incontrare Salvini per parlargli del caso - conclude Giuseppina Ghilardi - serve una legge che tuteli anche le vittime. Fino a quando lui sarà in libertà non saremo tranquilli. Prima credevo nella giustizia, adesso provo solo rabbia e delusione».