Siham, il velo e un sogno: "Dare giustizia". Prima praticante musulmana

Siham El Gataa, 28 anni, originaria del Marocco, è andata dritta per la sua strada. E oggi è la prima aspirante avvocato musulmana, rigorosamente in abiti tradizionali, che fa pratica in uno studio legale della nostra provincia di Beatrice Raspa

Avvocato Siham  El Gataa (Fotolive)

Avvocato Siham El Gataa (Fotolive)

Brescia, 13 luglio 2014 - La sua vocazione è essere prima. Alle medie è stata la prima studentessa straniera della sua classe, alle superiori la prima allieva velata, tra i banchi con il hijab. Un giorno, poco prima che si diplomasse, una prof l’ha presa in disparte e l’ha messa in guardia: «Stai attenta perché indossare il velo potrebbe penalizzarti nel mondo del lavoro. Non sarà facile per te». Ma Siham El Gataa, 28 anni, originaria del Marocco, non ci ha pensato nemmeno un momento a snaturarsi e farsi prendere dalla paura, ma al contrario è andata dritta per la sua strada. E oggi è la prima aspirante avvocato musulmana, rigorosamente in abiti tradizionali, che fa pratica in uno studio legale della nostra provincia. Il suo “dominus” è Carlo Motta Masini, ufficio in via Aleardi in città, che presenta la praticante con orgoglio. «E’ una tosta, Siham», garantisce il professionista indicando l’ultima arrivata in studio, che vanta già la targa fuori dalla porta con tanto di doppio nome, in italiano e in arabo. Sesta di sei fratelli, papà operaio in Italia da 25 anni, Siham ha lasciato Fes, Marocco, per trasferirsi a Brescia nel 1999, quando aveva 12 anni. Dopo le medie si è diplomata all’istituto tecnico commerciale, indirizzo corrispondente lingue estere, e poi si è laureata in Giurisprudenza alla Statale. Da maggio, appena iniziata la pratica, ha lasciato Polaveno, dove vivono i genitori, e con un’amica ha preso in affitto una casa in centro.

«Fare l’avvocato era il mio sogno sin da bambina – rivela la 28enne, capelli nascosti da un velo beige, occhiali da vista Ray Ban e scarpe con la zeppa, abilmente miscelati insieme a pantaloni e un golf leggero a coprirle i fianchi -. Per ora mi concentro sul diritto civile, ma non escludo di occuparmi di penale. Sono sempre stata affascinata da questa professione, mi incantavo davanti ai film dove i protagonisti sono uomini e donne di legge. Mi interessa capire come funziona la giustizia nel mondo. Non è possibile ci siano innocenti che vengono condannati ai processi. Ora sono qui. Sono stata molto fortunata». A sentirla parlare Siham sembra cittadina del mondo. Ha un italiano perfetto e pacato, che non tradisce inflessioni.<WC> <WC1>La incontriamo un pomeriggio, al termine di una riunione con un cliente:

«E’ marocchino come me e parla solo arabo – spiega la ragazza -. Ho fatto da interprete. Spero di rendermi utile così». Musulmana «credente e praticante», Siham c’entra poco con l’immagine della donna schiavizzata dall’Islam e dal maschio padrone cui si è abituati. E’ avviata a una brillante carriera, guida l’auto, ha amici bresciani, sogna il principe azzurro da sposare («Nella nostra cultura le convivenze non esistono. Ma il nostro matrimonio è più semplice da sciogliere rispetto al vostro: si va dal giudice e ci si dice ciao ciao») vive da sola in libertà. «Che la religione islamica significhi oppressione è un luogo comune, così come è uno stereotipo pensare che tutte le donne velate non vedano l’ora di essere liberate. Quando mai – scuote la testa l’aspirante principessa del foro - . L’Islam non ci vieta affatto di istruirci e lavorare, è vero il contrario. Le tragedie come quelle di Hina Saleem (la 20enne pakistana uccisa dal padre e dai maschi di famiglia nel 2005 a Sarezzo per punirla di essere troppo occidentale, ndr) sono figlie di una cultura retrograda e basta. Non è colpa della nostra religione». 

di Beatrice Raspa