Delitto Macchi, l’amico difende Binda: "Sono convinto che sia innocente"

L’indagato incontra in carcere un sacerdote e il presidente dell'associazione culturale Magre Sponde

Stefano Binda

Stefano Binda

Varese, 2 luglio 2016 - Stefano Binda, per gli inquirenti, avrebbe ucciso la studentessa di Varese Lidia Macchi, nel gennaio 1987. Ma gli amici più stretti e i familiari continuano a difenderlo e, dal loro racconto, emerge il ritratto di una persona incapace di gesti violenti. "Sono fermamente convinto che Stefano è innocente", spiega Francesco Porrini, 25 anni, presidente dell’associazione culturale Magre Sponde, con la quale collaborava il 48enne di Brebbia. Binda aveva messo a disposizione del gruppo, che organizza festival ed eventi culturali nel Varesotto, le sue conoscenze nel campo del cinema e della letteratura.

Nei giorni scorsi Porrini è andato a trovarlo nel carcere milanese di San Vittore dove l’uomo, arrestato lo scorso 15 gennaio, è detenuto. Binda ha ricevuto anche la visita di un sacerdote, con cui è rimasto in contatto. Difeso dagli avvocati Sergio Martelli e Roberto Pasella, il 48enne continua a ribadire la propria innocenza e chiede di poter tornare in libertà. Dal giorno dell’arresto ha perso 18 chili e chi lo ha incontrato descrive una persona «provata» dal regime carcerario, anche a causa dei problemi di salute che lo affliggono da tempo. Trascorre le sue giornate leggendo e cucinando per i suoi compagni di cella, che sono impegnati in attività lavorative. Sta insegnando inglese ad alcuni detenuti e, intanto, studia gli atti del procedimento a suo carico, che si è fatto consegnare dai suoi difensori. Una richiesta di scarcerazione è già stata respinta dalla Cassazione e, nei giorni successivi, è arrivato anche il no del Tribunale del Riesame di Milano a un ricorso presentato dai legali. I difensori stanno valutando un’eventuale nuova richiesta di scarcerazione al gip di Varese. Gli inquirenti, però, restano convinti della validità dell’impianto accusatorio a suo carico.

Binda, che aveva conosciuto Lidia Macchi al liceo e alla fine degli anni ’80 frequentava come la ragazza l’ambiente varesino di Comunione e Liberazione, è finito in carcere sulla base di una serie di indizi. Tra questi, il principale è la lettera anonima con un macabro componimento in versi inviata alla famiglia Macchi quasi trent’anni fa, il giorno dei funerali. Secondo l’accusa Binda avrebbe violentato e massacrato la ragazza con 29 coltellate, scrivendo la poesia nei giorni successivi al delitto con particolari che sarebbero stati a conoscenza solo dell’assassino. Intanto le indagini, coordinate dal sostituto pg di Milano Carmen Manfredda, vanno avanti e la famiglia Macchi, assistita dall'avvocato Daniele Pizzi, continua a chiedere "verità e giustizia". È stata fissata una nuova udienza, l’8 luglio, davanti al gip di Varese, per fare il punto sugli accertamenti sui resti della studentessa, riesumati per cercare tracce genetiche.