Tetto agli stranieri, richiesta di Berna bocciata dalla Ue: salva la libera circolazione

Un no secco, deciso, inappellabile. È quello che da Bruxelles è arrivato fino a Berna, sulla rotta tracciata dall’accordo di libera circolazione delle persone. Sottoscritto il 21 giugno 1999 da Svizzera e Unione europea, il trattato era stato messo in dubbio nel febbraio di quest’anno, quando il referendum contro l’immigrazione di massa aveva riscontrato il 50.3% di sì

Dogana al confine tra Italia e Svizzera

Dogana al confine tra Italia e Svizzera

Varese, 27 luglio 2014 - Un no secco, deciso, inappellabile. È quello che da Bruxelles è arrivato fino a Berna, sulla rotta tracciata dall’accordo di libera circolazione delle persone. Sottoscritto il 21 giugno 1999 da Svizzera e Unione europea, il trattato era stato messo in dubbio nel febbraio di quest’anno, quando il referendum contro l’immigrazione di massa aveva riscontrato il 50.3% di sì (e nel Canton Ticino si era addirittura sfiorata quota 70%). Il testo della consultazione riguardava il nuovo articolo 121 della Costituzione federale, che tra le altre cose prevedeva l’introduzione di «tetti massimi e contingenti annuali per gli stranieri che esercitano un’attività lucrativa» in territorio elvetico, tetti che «devono essere stabiliti in funzione degli interessi globali dell’economia svizzera e nel rispetto del principio di preferenza agli svizzeri» e che «devono comprendere anche i frontalieri». Va da sé la preoccupazione suscitata dal referendum in tante regioni d’Europa che fanno del frontalierato una delle loro principali risorse economiche. È il caso delle aree di confine del Varesotto, che insieme a quelle del Comasco e del Verbano forniscono tra i 55mila e i 60mila frontalieri a Canton Ticino (in gran parte) e Grigioni. Nello specifico, i varesini che risiedono in un raggio di 20 chilometri dalla frontiera e che si recano ogni giorno in Svizzera per lavorare sono tra i 23mila e i 25mila. Essi pagano le tasse in Svizzera, ma usufruendo dei servizi italiani (hanno il permesso di lavoro, non quello di soggiorno, del quale possono invece fare richiesta i frontalieri residenti oltre il raggio di 20 chilometri dal confine) generano il meccanismo dei ristorni fiscali, ovvero quello strumento - sancito dall’accordo bilaterale del 1974 - che impone a Berna di restituire parte delle imposte prelevate alla fonte sui redditi dei frontalieri.

Si tratta del 38.8% del totale, che all’anno fruttano circa 50 milioni di euro destinati alle casse statali. Roma, poi, li gira alle amministrazioni locali: direttamente ai Comuni nel caso in cui i frontalieri residenti corrispondano a più del 4% del totale degli abitanti; alla Comunità montana di riferimento (se il Municipio in questione appartiene a un’espressione di tale ente territoriale) o alla Provincia nel caso in cui il numero di frontalieri sia minimo rispetto al totale della popolazione di una data località. Per il momento, dunque, lo status quo non si tocca. Per voce del responsabile della diplomazia europea, la britannica Catherine Ashton, Bruxelles ha fatto sapere che «rinegoziare l’accordo in vista dell’introduzione di limitativi quantitativi e di quote, compresa la scelta nazionale in favore di cittadini svizzeri, costituisce una contraddizione fondamentale» con l’accordo stesso. Nessun tetto, insomma, al numero di stranieri che lavorano nel territorio della Confederazione elvetica. Una buona notizia anche - e soprattutto - per i nostri frontalieri.