Delitto Macchi: la Cassazione, "Binda resti in carcere, rischio di una nuova violenza"

Le motivazioni della Suprema Corte, che aveva respinto il ricorso presentato dai difensori dell'uomo accusato di aver violentato e ucciso la studentessa

Stefano Binda

Stefano Binda

Varese, 18 ottobre 2016 - Le "modalità odiose e brutali" con le quali fu uccisa la studentessa di Varese Lidia Macchi, massacrata con 29 coltellate,  giustificano la detenzione in carcere di Stefano Binda, l'ex militante di Comunione e Liberazione accusato del delitto e dello stupro della ragazza, sua ex compagna di liceo, anche perché rimane il rischio di "un'altra esplosione di devastante violenza".

Lo sottolinea la Cassazione nelle motivazioni della conferma della massima misura cautelare per l'indagato. La Suprema Corte ha convalidato il carcere il 29 aprile, respingendo il ricorso dei difensori di Binda che avevano chiesto la scarcerazione, impugnando l'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Varese Anna Giorgetti. Secondo gli 'ermellinì, il gip "con adeguata e logica motivazione ha esposto con chiarezza le ragioni del proprio convincimento in ordine alla ricorrenza delle ravvisate esigenze cautelari". In particolare, la Cassazione sottolinea che il gip "ha dato conto di uno specifico pericolo di inquinamento probatorio" indicando "circostanze concrete e non congetturali" sul rischio che Binda condizioni le dichiarazioni dei testimoni sentiti per far luce sul 'cold case' con la sua personalità "fredda, calcolatrice, leaderistica, capace di esercitare un eccezionale carisma sugli altri che subivano il fascino della sua personalità intellettuale e delle sue doti affabulatorie". Per la Cassazione sono stati "sufficientemente esplicitati» dal gip i rischi del pericolo di fuga dell'indagato. Quanto al rischio di reiterazione del reato, secondo i supremi giudici il gip lo ha desunto correttamente anche "dal dichiarato uso, ancora attuale di eroina", dalla precedente condanna contravvenzionale riportata da Binda per guida sotto l'effetto di sostanze stupefacenti. A fronte di questi dati non si può escludere che Binda, per la sua "fragilità", man mano che vengono depositati gli esiti delle indagini, possa tornare "ad un nuovo ed ulteriore cortocircuito non dissimile da quello già vissuto nel gennaio 1987" e "dare luogo a un'altra esplosione di devastante violenza drammaticamente originata o amplificata anche dall'abuso di sostanze che ne elidono il controllo".

In base alle accuse, la sera del 5 gennaio 1987, Binda aveva ottenuto con minaccia e costrizione un rapporto sessuale dalla vittima, e dopo l'aveva aggredita a coltellate, anche mentre la ragazza tentò di fuggire, "nell'intento di distruggere la donna considerata quale causa del rapporto sessuale vissuto come tradimento del proprio ossessivo e delirante credo religioso". Lidia Macchi morì «dopo una penosa e non breve agonia", per anemia e asfissia, dopo essere stata colpita da 29 coltellate e abbandonata al gelo.