Franco Girardelli, la vita sui pattini: "Con l'hockey ho vinto tutto, Monza rialzati!"

Intervista a Franco Girardelli, dai trionfi da giocatore al ritorno in A con l'Hockey Roller Club Monza

Franco Girardelli in azione con la Nazionale

Franco Girardelli in azione con la Nazionale

Monza, 5 giugno 2016 - C'era un tempo in cui Monza era la capitale italiana dell’hockey su pista. Nei palazzetti di Biassono e Brugherio, tana delle due società leader in quegli anni d’oro, si disputavano derby furibondi. Si vincevano scudetti. Trofei nazionali e internazionali. E a vedere le partite c’erano ogni volta almeno duemila spettatori, ben oltre il limite delle capienze. E i ragazzi dell’epoca – ma non solo – si dividevano in una delle rivalità più entusiasmanti che la Monza sportiva abbia mai conosciuto. Da un lato l’Hockey Club Monza, la storia, nato nel 1933, 7 scudetti, 3 Coppe Italia, 1 Coppa Cers, 1 Coppa delle Nazioni in carniere. E dall’altro il Roller Monza, fondato nel 1980 da una costola di fuoriusciti, gli sfidanti, destinati a vincere 4 scudetti, 1 Coppa Italia, 3 Coppe delle Coppe.

In quell’epoca si stagliava anche lui, Franco “Cirio” Girardelli, giocatore leggendario, leader del Roller Monza, capace di inanellare in carriera qualcosa come 2 scudetti a Breganze, 2 a Vercelli, 3 a Monza e ancora 2 Coppe delle Coppe, 1 Coppa Cers, 3 Coppe Italia. Senza dimenticare i successi in maglia azzurra, dove in 10 anni disputò oltre 100 partite e conquistò 1 Europeo giovanile, partecipò a 5 edizioni degli Europei con 3 bronzi e 2 argenti, e soprattutto ai Mondiali conquistò 1 argento e soprattutto 1 oro nel 1986 in Brasile, preceduto dalla vittoria dei World Games di Londra.

Cos’è l’hockey? "È passione, è la mia vita, anche oggi che non gioco più e ho una figlia di 28 anni. Alla base di tutto c’è sempre stato lo spirito di gruppo imparato praticando questo sport". Nato il 2 gennaio 1958 a Trento (figlio di un carabiniere e di una casalinga, un fratello maggiore) ma cresciuto in Veneto, come si avvicinò a questa disciplina? "Avevo due anni quando andai a vivere a Breganze, paesino (ottomila anime, ndr) in provincia di Vicenza. E là l’hockey era tutto, era lo sport del paese, tutti ci giocavano, era quasi una religione... E a otto anni ho iniziato anch’io". Quando ha capito che l’hockey sarebbe stato la sua strada? "Fino a 18 anni in realtà mi dividevo fra hockey e calcio, altro sport che amavo molto...". Finché? "Finché mi sono reso conto che avrei dovuto scegliere e ho optato per l’hockey, lo sport che mi riusciva senza dubbio meglio: visto che a 16 anni ero già in serie A e a 18 vincevo il mio primo scudetto!". Ruolo? "Centrale, punto di raccordo fra difesa e attacco...". Ha sempre amato stare in mezzo? "Anche nella vita, dove ho imparato che lo sport è indispensabile: per crescere anche come persona". L’hockey – almeno per occhi inesperti - in fondo è questione di equilibrio: sempre in bilico su due di pattini... "(sorride) Alla base di tutto c’è il pattinaggio, se non lo fai bene e se non hai un processo di crescita adeguato a sostenere il tuo talento, non riesci a fare il salto di qualità". Nel vostro sport si usa il bastone per colpire la pallina... Mario Aguero, del Roller, ci rimise un occhio: l’hockey è uno sport violento?... "Per nulla, il calcio lo è molto di più. Nell’hockey sei protetto, non sono ammesse la carica e la cattiveria, io non ho mai fatto male a nessuno". E il bastone? "(ride) ...qualche volta l’ho usato anch’io, ma solo per difendere i compagni contro l’arroganza e la cattiveria". Quando arrivò a Monza, aveva già vinto tutto. "Era il 1986, ero reduce da un brutto campionato a Vercelli, avevo superato i 30 anni e in molti ormai mi consideravano un giocatore finito". Fino a quando? "Venne a cercarmi Piero Angelo Ferlinghetti, presidente del Roller. Mi offrì di andare a giocare a Monza... io, che ero mosso da un grande spirito di rivalsa, ne fui subito tentato ma presi tempo". E invece... "Al pomeriggio nella banca dove lavoravo mi telefonò il direttore del personale: mi informava che aveva già sul tavolo una domanda di trasferimento a Milano!". Ferlinghetti non aveva perso tempo... "E nel giro di due ore mi ritrovai a Monza". Una scelta di cui non si pentì. "Ho vissuto i 4 o 5 anni forse più entusiasmanti della mia carriera, lo stimolo che mi fu dato dallo spirito di rivincita mi portò soddisfazioni enormi". Arrivaste a scalzare dal trono una squadra leggendaria come l’Hockey Monza. "In quegli anni a Monza c’erano due squadre e fra di loro nacque una rivalità forsennata...". Loro erano i campioni storici, voi eravate nati da una loro costola. "E al palazzetto quando ci incontravamo il coro che si alzava dagli spalti era sempre lo stesso: “non vincete mai”... fino a quando non glielo facemmo rimangiare, conquistando il nostro primo scudetto… da allora non lo intonarono più!". Aneddoti? "Mezz’ora prima delle partite ci si trovava al bar tutti insieme: a berci un caffè corretto grappa e a fumarci una sigaretta... Un comportamento fuori dalle regole per un atleta, ma che serviva a cementare lo spirito di gruppo". Era un mondo diverso, anche nell’hockey giravano soldi. Quanto si guadagnava? "l giocatori più bravi arrivavano a guadagnare anche 100 milioni all’anno". Pure lei? "(ride) io prendevo la metà, ma mi feci dare posto in banca: avevo un diploma in ragioneria e pensavo al futuro". Leader in campo e fuori, sempre con la testa sulle spalle. "Ricordo che al presidente suggerivo sempre di non scegliere i giocatori più bravi, ma quelli che avevano spirito di squadra...". Perché l’epoca d’oro della rotellistica monzese fu spazzata via? "Il mondo è cambiato, non ci sono più i presidenti un po’ padri padroni di un tempo". A Monza si è però tornati a giocare a hockey, col neonato Hockey Roller Club Monza questa città è tornata in sedie A dopo 19 anni. "E io sono vicepresidente di questa società, che è nata da sorta di ricongiungimento fra le anime delle due squadre rivali vent’anni prima. I nostri colori sono bianco, rosso e un po’ di azzurro, quelli che un tempo appartenevano a entrambe le squadre". Quest’anno, pur da neopromossi, avete centrato subito i playoff. "Alla base c’è una grande passione, vogliamo riportare l’hockey a Monza perché lo merita anche se dobbiamo ancora crescere come sponsor e coinvolgimento del territorio...". Non è facile, basti vedere cosa succede al calcio. "Anche se a volte mi chiedo chi me lo ha fatto fare, pur non essendo di Monza, lo faccio per questo territorio che ormai è casa mia, per l’hockey e per i ragazzi". Giusto, lavorate molto coi giovani. "Andiamo nelle scuole e una delle più grandi soddisfazioni quest’anno è quella di aver coinvolto quindici ragazzini dai 5 ai 9 anni". Capitolo impianti: a Monza neppure negli anni d’oro questa città ne aveva di adeguati. "Infatti l’Hockey Club Monza giocava a Biassono e noi del Roller a Brugherio... la mancanza cronica di spazi è il problema di tutti gli sport, non si è mai fatto nulla di concreto in proposito.. anche oggi se giochiamo devo ringraziare Biassono per l’ospitalità". Prospettive? "Siamo nati senza che nessuno ci desse una mano e dobbiamo avere una società costruita sui giovani, senza strafare: siamo seri, sani, senza debiti, ci stiamo comportando bene in un mondo dello sport spesso malato". Ve lo riconoscono? "Istituzioni e imprenditori dovrebbero tenerne conto di più...". Qual è la felicità per lo sportivo Franco Girardelli? "L’attesa della gioia è migliore della gioia stessa, può apparire strano ma la cosa più bella è la sensazione prima di determinate partite...". Viene mai voglia di tornare a giocare? "Fino a due anni fa ho giocato in B, ma a un certo punto devi farti da parte o... diventi patetico".