Marco Balzano innamorato di Milano: "Un luogo ideale"

Il giovane vincitore del Premio Campiello ha genitori pugliesi e ha sempre vissuto a Bollate, ma il capoluogo lombardo è la sua vera casa: "Qui ho studiato, suonato e amato la letteratura. Non ho mai creduto a una Milano fredda e spigolosa, la convivenza è possibile" di MASSIMILIANO CHIAVARONE

Marco Balzano

Marco Balzano

Milano, 14 maggio 2016 - «Milano è lo specchio della complessità del reale. Non si lascia imprigionare in una sola immagine, ma ha tante facce come la storia umana». Lo racconta lo scrittore Marco Balzano, vincitore del premio Campiello con "L'ultimo arrivato" (Sellerio) «che ho scritto proprio a Milano».

Milanese di adozione?

«Milanese e basta. Sono nato a Milano nel 1978, ho visto la luce all'Ospedale Sacco. I miei genitori sono entrambi pugliesi, ma siamo sempre vissuti a Bollate, dove mi è capitato anche di lavorarci come insegnante. I miei hanno sempre avuto un legame profondo con questa città. Ricordo le domeniche dedicate a scoprirla. Arrivavamo in auto fino a Lampugnano e poi prendevamo i mezzi. Stavamo tutto il giorno a Milano, macinando chilometri, dai Navigli a San Siro. Indimenticabili le tante feste di Carnevale in piazza Duomo da bambino».

Sembra di leggere sprazzi di quello che racconta della storia di Ninetto de "L'ultimo arrivato", un "picciriddu" siciliano di nove anni che negli anni ‘50 emigra senza la sua famiglia a Milano.

«Sì, a differenza che io ho sempre avuto con me mio padre e mia madre. Anzi io e mia sorella siamo i primi "milanesi" di casa, rappresentiamo la stabilizzazione della mia famiglia, come se prima i miei stessero cercando il loro posto in città e poi l'hanno trovato crescendo i figli qui. Questo confronto tra generazioni mi ha spinto a riflettere su Milano».

Milano città che include?

«Questa città si è fatta carico dell’accoglienza di chi si spostava. Non ho mai creduto a un’immagine fredda e spigolosa di Milano. Qui è possibile quella convivenza che in altre città è più difficile».

Nel capoluogo lombardo è nata anche la sua passione e “fortuna” letteraria?

«Sì. Ho studiato sempre a Milano, dal liceo Beccaria all’Università Statale dove mi sono laureato in Lettere. Studiavo batteria e percussioni e per tutto il periodo universitario pensavo che la mia strada fosse la musica. Ho suonato in diversi gruppi dalla fine degli anni ’90 e ho conosciuto anche musicisti che hanno sempre avuto un legame molto stretto con questa città».

Per esempio quali?

«Enzo Jannacci. Facevo il volontario al Festival di Villa Arconati e l’ho incontrato una sera in cui era stato ospitato. Venne in anticipo con la moglie. Io avevo avuto l’incarico di stare con lui per fargli compagnia. Facemmo una bellissima passeggiata. Jannacci era sereno e una fonte inesauribile di battute. Poi ho conosciuto anche gruppi che hanno cantato Milano come i “Baustelle” e soprattutto gli “Afterhours”. Loro in particolare cantano una Milano che non ti dà false illusioni, ma è anche una città in cui se avverti un disagio non ti senti fuori luogo, perché Milano sa comunicare la complessità del vivere».

E la scrittura quando arriva?

«Proprio attraverso la musica, perché nel gruppo in cui suonavo volevo dare la mia opinione sui testi e anche scriverli. Insomma ero il batterista più rompiscatole del mondo e così non poteva continuare. Ma c’è un posto a Milano che mi ha rivelato l’urgenza di scrivere».

Parla del luogo milanese che preferisce?

«Sì, viale Affori e in particolare il parco e la biblioteca di Villa Litta. Era il mio posto segreto, ci andavo sempre da solo. Volevo sfruttare quella Milano allora a me sconosciuta, per cominciare da zero, misurarmi con la scrittura e costruire un nuovo Marco. Ho cominciato a scrivere proprio qui quando avevo 25 anni. I primi tentativi sono stati in versi, poi sono passato alla prosa. Qui ho scritto i miei libri e anche la parte finale de “L’ultimo arrivato”. La biblioteca con le sue sale ampie e affrescate, di cui una con pianoforte e dedicata ai concerti. Il parco esterno, così grande e un po’ selvatico, tutto l’insieme costituisce il mio rifugio anche se ormai non più da anonimo».

Questo luogo è presente nei suoi libri?

«Di sicuro nel prossimo che è ambientato in una strada nei paraggi, la via Osculati. E pensando, per esempio, a quando vedo gli extracomunitari che giocano nel parco Litta credo che questo luogo sia legato al tema dell’emigrazione e quindi ai miei libri. Mi piace raccontare l’emigrazione come bisogno profondo dell’uomo che si allontana dalla miseria per avere una vita migliore e forse felice. E Milano nella sua eterogeneità è un luogo di osservazione privilegiato perché racchiude storie e provenienze diverse».

mchiavarone@gmail.com

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