Marocchino dice "no" al terrorista: "Sono italiano, non vengo con l'Isis"

Il ragazzo ha resistito di fronte alle minacce: "Quando torno in Italia ti decapito, hai visto la Francia?"

Miliziano Isis in azione (ANSA)

Miliziano Isis in azione (ANSA)

Milano, 15 luglio 2016 - «Io sono un cittadino italiano (...) mi ritengo appartenente alla comunità cristiana». E' la risposta di un 20enne marocchino a due foreign fighters coetanei che lo minacciavano per convincerlo ad arruolarsi nell'Isis e partire per la Siria. Con tanto di inquietanti minacce di "decapitazione" recapitate via WhatsApp in caso di rifiuto. Il giovane, che vive a Milano ha fatto presente a due foreign fighter di essere un «cittadino italiano» e di sentirsi ormai anche parte della «comunità cristiana».

Il particolare, secondo quanto riferisce l'agenzia Ansa, è contenuto negli atti dell'inchiesta della Procura di Milano chiusa giovedì 14 a carico di Monsef El Mkhayar, 21enne marocchino partito dalla Lombardia nel gennaio 2015 per andare a combattere in Siria, dove è morto, invece, nei mesi scorsi il suo amico e coetaneo Tarik Aboulala. Dall'indagine, condotta dalla Digos e coordinata dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e dal pm Piero Basilone, infatti, è emerso che Monsef e Tarik, che fino ad un anno e mezzo fa vivevano nella comunità Kayros di Vimodrone ( Milano), dopo un «percorso di radicalizzazione» sono diventati soldati del Califfato e dalla Siria, nel luglio dello scorso anno, hanno «ripetutamente cercato di convincere» un amico rimasto a Milano, anche lui ospite della comunità, a «unirsi all'Is». E ci hanno provato «facendo leva - come scrive il gip Paolo Guidi nell'ordinanza di custodia cautelare (Monsef è ricercato) - su un ipotetico dovere» del giovane «di onorare le proprie radici arabe».

Sentito a verbale dagli inquirenti lo scorso dicembre, il giovane ha raccontato di aver detto no all'arruolamento spiegando ai due, sempre via WhatsApp, che «io sono un cittadino italiano (...) mi ritengo appartenente alla comunità cristiana». A quel punto, ha aggiunto il ragazzo, i due hanno «cominciato ad offendermi e a minacciarmi di morte». Il 4 dicembre, infatti, sul telefono del giovane è arrivato un messaggio da Tarik che diceva: «Quando arrivo là ti taglio la testa. Hai visto Francia, Francia», con riferimenti agli attentati di Parigi. Dopo quell'intimidazione, il ragazzo ha deciso di rivolgersi al direttore della comunità per dirgli quello che stava accadendo. In un passaggio del suo provvedimento (anche a carico di Tarik che, però, è deceduto in combattimento qualche mese fa) il giudice spiega che i due foreign fighter avevano stretto «un profondo legame di amicizia, cementato dalla compartecipazione dei dettami islamici e dalla frequentazione della moschea di via Padova». In ipotesi, aggiunge il gip, Monsef, che si riteneva un «messaggero di Allah», può anche «contare su appoggi» a Milano ed è «altamente probabile» che, qualora decidesse di tornare in Italia, possa compiere attentati, avendo promesso via facebook che, quando rientrerà, si farà "esplodere". Da qui le esigenze di custodia cautelare.

L'inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e dal pm Piero Basilone, chiusa nei giorni scorsi riguarda i due ragazzi, entrambi del '95 andati in Siria al centro di un'inchiesta per terrorismo internazionale e nella quale è venuto a galla anche un «documento simile a una 'carta d'identità' dell'Islam State. Su Monsef c'è un'ordinanza di custodia cautelare in carcere, firmata dal gip Paolo Guidi e non eseguita perché appunto il giovane è ancora in Medio Oriente. Dopo aver convinto l'amico Tarik, i due hanno preso un volo da Bergamo il 17 gennaio 2015 per Istanbul e poi si sono diretti in Siria. Dopo tre mesi di silenzio telematico, i due hanno concluso l'addestramento militare, ricomparendo poi con la nuova identità di guerriglieri del Califfo, con tanto di foto su Facebook, proselitismo e messaggi minatori, destinatario il terzo ragazzo marocchino che è rimasto in Italia.

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