La musicista Cecilia Chailly: "Milano creativa e spirituale, qui ho trovato l'indipendenza"

Arpista e compositrice ha un legame molto stretto con il capoluogo lombardo: "Contesto e stimolo per il mio percorso personale e musicale. Ricordo quando conobbi Claudio Abbado, Giorgio Faletti, Morgan Lucio Dalla, Mina. Ma soprattutto uno mi è rimasto nel cuore: Fabrizio De Andrè" di Massimiliano Chiavarone

Cecilia Chailly

Cecilia Chailly

Milano, 12 luglio 2015 - «Milano è la città più creativa d’Italia». Lo afferma l’arpista e compositrice Cecilia Chailly. «Ma qui ho affinato anche la mia spiritualità».

La musica è il suo lavoro, ma è figlia e sorella di musicisti, insomma di certo in famiglia ha trovato gli stimoli per dedicarsi all’arte. Da bambina le avevano regalato una piccola arpa? «No, ho avuto un’infanzia libera, senza imposizioni dall’alto. Dai 2 agli 8 anni però ho vissuto a Roma perché mio padre, Luciano Chailly, era stato nominato Direttore generale dei programmi musicali della Rai. Ricordo ancora che mi tenevo stretta il bambolotto cicciopalla e giocavo spesso con mio fratello Riccardo. Poi siamo ritornati a Milano».

E da qui comincia il suo percorso nella musica? «Sì, ma è stato naturale. Per essere esatti iniziò la mia immersione «lirica», perché mio padre nel frattempo era stato nominati direttore artistico della Scala. Anche se ragazzina, ogni sera ero in teatro. Ho visto e ascoltato tanti, da Abbado a Pavarotti, da Nureyev a Ozawa, credevo che gli dei della musica e del balletto si fossero tutti dati appuntamento a Milano».

E voi dove abitavate? «In via Appiani, nella casa un tempo di Orio Vergani poi ci siamo trasferiti in quella che è diventata la casa di famiglia in viale Bianca Maria. Io ormai avevo 13-14 anni, frequentavo il Conservatorio e quando i miei non c’erano approfittavo per organizzare feste con gli amici di scuola».

E’ cresciuta bene a Milano? «Sì, è una delle città migliori per stimolare la curiosità culturale e anche per entrare in contatto con gli altri. Qui si impara ad essere più immediati, ma senza essere invadenti».

E si portava sempre dietro l’arpa? «Non proprio sempre, ma spesso. A 19 anni ho suonato alla Scala e anche al Piccolo Teatro nella «Tempesta» di Shakespeare. Ma mi sono sempre guardata attorno. Non ho mai concepito nette separazioni tra la classica e gli altri generi musicali. A 15 anni facevo improvvisazioni jazz e andavo ai concerti dei Pfm, Area, Skiantos. Ho vissuto in prima persona tutti i mondi musicali che potevo conoscere. E poi grazie a Milano ho scoperto anche l’arpa elettrica che è diventata uno strumento centrale di molta della mia produzione artistica».

Qual è la strada di Milano che le richiama i ricordi più forti? «Piazza Cinque Giornate, ha per me un valore fortemente simbolico. E’ l’emblema della mia emancipazione e della mia indipendenza. Ho cominciato a lavorare presto e a 19 anni avevo già la mia prima casa e studio che dava proprio sulla piazza all’angolo della fermata dei taxi. E’ una piazza bellissima, con il monumento centrale rappresentato da un obelisco e un gruppo di cinque donne che si slanciano verso la vita e la libertà a rappresentare la vittoria contro l’oppressore austriaco e le truppe del maresciallo Radetzky. Ho sempre trovato stimolo dalla forza che trasmettono. Una volta proprio in quella piazza mi diedi appuntamento con mio padre. Non stavo bene, mi stavo lasciando con il mio partner di quel periodo. Quell’incontro mi diede tanta speranza. Non mi fece sentire sola».

Ad ascoltarla, Milano sembra la città ideale per gli incontri. «Milano è sempre stata contesto e stimolo per il mio percorso personale e musicale. Ricordo quando conobbi Claudio Abbado: avevo 16 anni e fui invitata a casa sua. Appena lo vidi gli dissi di getto: «Ciao Claudio», meritandomi un’occhiataccia da mia madre. Era un uomo di grande disponibilità e con cui poi ho lavorato. Non dimentico gli altri incontri con Giorgio Faletti, Morgan Lucio Dalla, Mina. Ma soprattutto uno mi è rimasto nel cuore».

Quale? «Quello con Fabrizio De Andrè. Lavorai con lui al suo ultimo album «Anime Salve». Voleva un’arpa paraguaiana per la canzone «Dolcenera». Arrivai con due arpe per scegliere quella più adatta. Eravamo allo studio Metropolis di Lucio Fabbri in via De Amicis. Dopo aver registrato parlammo di filosofia, astrologia, della vita. Tra noi iniziò un bel dialogo e lui, per rendermi omaggio, prima di ogni suo concerto negli stadi faceva ascoltare il mio cd «Anima»».

di Massimiliano Chiavarone mchiavarone@yahoo.it

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