Il velo totale sarà proibito in ospedale: "Qui in corsia è l’ultimo problema"

Pochi casi l’anno. La Regione prepara il divieto: varrà anche all’Aler di GIULIA BONEZZI

Donne che indossano il niqab, o velo islamico integrale (Spf)

Donne che indossano il niqab, o velo islamico integrale (Spf)

Milano, 4 dicembre 2015 - Detto dal governatore Roberto Maroni, e (quasi) fatto: ieri l’assessore alla Sicurezza Simona Bordonali ha portato in Giunta un’informativa con le misure da approvare alla seduta successiva, la prossima settimana: accesso vietato «a chi si presenta a volto coperto» in tutte le strutture del sistema Regione. Dal Pirellone all’Aler, e inclusi Asl e ospedali, non si potrà entrare con passamontagna, casco integrale, o col velo islamico integrale: il niqab che lascia scoperti solo gli occhi delle donne o il burqa, che scherma anche quelli con una rete. Rarità anche in una metropoli come Milano, e più facili da incontrare su un grappolo di mogli di sceicco in Montenapo che nelle periferie multietniche.

O negli ospedali, dove di musulmane con in testa un comune hijab - che lascia scoperto il volto - se ne vedono anche tra Oss, infermiere e tirocinanti di Medicina. Molte strutture non hanno mai dovuto porsi il problema di una paziente in niqab; nelle altre è l’ultimo dei problemi. Al Buzzi diventano mamme 3.400 donne ogni anno, e non più di quattro o cinque sono velate integrali; se c’è posto le lasciano sole in stanza, altrimenti lasciano che si coprano quando entrano degli uomini. Alla Mangiagalli del Policlinico, su 6.500 partorienti l’anno di 93 nazionalità, sono tre o quattrocento le musulmane, ma col velo totale «ne avremo una, massimo tre l’anno», spiega il direttore di presidio Basilio Tiso. Sono invece tra 30 e 50 le islamiche, anche svelate, che chiedono di essere assistite da donne (o lo chiedono i mariti). E non è difficile accontentarle, qui come nelle altre Ostetricie e ginecologie della città dove tra l’80 e il 90% del personale è femminile. Si cerca di farlo anche al pronto soccorso, «nei limiti del possibile» e altrimenti si spiega, con l’aiuto di un mediatore culturale: accade al privato accreditato San Raffaele come alla pubblica Macedonio Melloni, «senza drammi» dice la direttrice sanitaria Marisa Errico.

Lì, nella terza culla della città, non ricordano una donna a volto coperto, e non la ricordano Marco Trivelli, direttore generale del Niguarda, né Germano Pellegata, dg del San Carlo, ospedale di periferia multietnica con centro dedicato alle immigrate. Ne ha uno anche il San Paolo, 1.800 puerpere nel 2014 di cui il 38% straniere, e il problema secondo la responsabile Barbara Grijuela sono casomai le pazienti che si presentano solo al momento di partorire, spesso direttamente dall’Egitto, anche senza velo ma con diversi cesarei alle spalle. «Mai ricevuto una protesta per l’assistenza a una donna col niqab - assicura il dg Enzo Brusini -. A dire il vero non credo d’averne mai vista una in ospedale». Qualche problema, ragionano invece alcuni dirigenti in anonimato, potrebbe crearlo un divieto d’accesso alle supervelate: «Difficilmente applicabile, il nostro dovere è curare tutti». E nei presidi di periferia multietnica, sorride un direttore, «se smettiamo di curare gli immigrati tanto vale chiudere».

giulia.bonezzi@ilgiorno.net

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