Proferall, dopo la frana la richiesta di condanna

Chiesti oltre tre anni per bancarotta. Manzoni: "Abbiamo investito tutto il nostro patrimonio per salvare l’azienda"

 Lo stabilimento della Proferall

Lo stabilimento della Proferall

 Lecco, 17 febbraio 2017 - Tre anni e quattro mesi di reclusione per bancarotta fraudolenta e assoluzione invece per il reato di falso in bilancio. È la richiesta di condanna nei confronti di Enrica Marisa Vassena, a processo per il fallimento della propria attività di famiglia, la Pro.Fer.All., notissima azienda di Cortenova che si occupava di estrusione di alluminio. Nella sua requisitoria il sostituto procuratore Paolo Del Grosso ha cercato di chiarire i punti focali dell’intricata vicenda sull’azienda valsassinese i cui capannoni vennero polverizzati dalla frana di Bindo (2002).

Sotto le macerie rimasero macchinari, magazzino e libri contabili, creando un danno di 25 milioni di euro e lasciando senza lavoro i 77 dipendenti. «Il contesto in cui si è trovata questa attività a tutti gli effetti in salute e poi piegata da un evento imprevedibile come la frana è drammatico - ha spiegato il sostituto Del Grosso - ma ciò non toglie che sono state poste in essere delle condotte che si configurano in un reato». «I crediti esposti nel bilancio del 31 ottobre 2010 erano per oltre un milione inesigibili l’affitto d’azienda avrebbe potuto essere produttivo se avessero proceduto con il contratto scorporando i debiti, ma il canone non congruo ha depauperato l’azienda.

Così come le due distrazioni di 180 e 200mila euro, che non hanno giustificazioni plausibili». Questo l’impianto accusatorio a cui ha fatto da contr’altare la deposizione di Norberto Manzoni, marito dell’imputata oltre che socio e direttore generale dell’azienda, il quale è stato chiamato dalla difesa a fare un lungo excursus sull’attività. «Per ripartire ci siamo rivolti alla Regione, al Governo e al sistema creditizio, ma le banche si sono tirate indietro e abbiamo ottenuto solo dei fidi a breve». Il 29 luglio 2011 infatti è stato stipulato un contratto d’affitto d’azienda, con il quale l’immobile e la stessa attività produttiva sono stati affittati ad un terzo, al canone di 30mila euro annui, una somma bassissima, che ha contribuito a consolidare le accuse.

«Abbiamo fatto questa scelta per preservare il patrimonio e i dipendenti – ha spiegato Manzoni – abbiamo accettato un prezzo non congruo per salvare il posto di tutti i nostri lavoratori». Altro aspetto critico l’inserimento a bilancio di crediti poi sono stati considerati inesigibili e soprattutto due bonifici effettuati proprio il giorno in cui l’azienda è stata dichiarata fallita, uno di 200mila euro versato ad una banca senegalese e l’altro di 180mila servito per pagare alcuni professionisti. «Noi abbiamo investito tutto il nostro patrimonio, un milione e 350mila euro, per sollevare le sorti della nostra azienda, abbiamo versato questi 200mila euro ad una banca senegalese per poterci garantire un piccolo sostentamento nel futuro – prosegue il teste principale della giornata –. Questo istituto infatti avrebbe dovuto versarci dei bonifici mensili, ma non abbiamo mai visto una lira». A marzo la sentenza.