Il lungo addio dei Deep Purple

La grande band martedì ad Forum di Assago

Roger Glover e Ian Gillan

Roger Glover e Ian Gillan

Assago ( Milano), 25 giugno 2017  - La glaciazione incombe, ma i Deep Purple proseguono la rotta come il rompighiaccio raffigurato nella copertina di quell’“inFinite” con cui approdano martedì ad Assago. «Più andiamo avanti e più ci domandiamo quando la morsa gelida ammassata dal tempo attorno alla nostra ‘nave’ riuscirà a incagliarla bloccandone la rotta» ammette Ian Paice, parlando di questa rentrée milanese. «Nessuno di noi cinque vuole smettere, ma il realismo ci fa prendere atto che non potremo andare avanti per sempre; come fai a fermare la sabbia dentro a una clessidra?».

Ventiduesimo capitolo di un’epopea varata quasi mezzo secolo fa tra i solchi della cover di Joe South “Hush”, “inFinite” potrebbe essere l’album d’addio se la band inglese manterrà fede ai propositi di questo “The Long Goodbye Tour” messo in strada il 13 maggio scorso a Bucarest. «Sappiamo tutti che la fine è probabilmente più vicina di quanto vorremmo che fosse, ma pensiamo di avere lo stesso davanti ancora due o magari tre anni di concerti» assicura il batterista, rilanciando su quel vincolo che lega la band al pubblico lombardo da un lontano concerto del ‘73 al Palazzetto dello Sport di Varese. Allora Paice aveva 29 anni e la formazione dei Purple era la Mark II, quella “storica” consacrata tra i solchi del live “Made in Japan”, mentre al Forum va in scena la Mark VIII, che conferma Ian Gillan al microfono, Roger Glover al basso e lui stesso dietro i tamburi, affiancati da Steve Morse, chitarra, e Don Airey, tastiere.

La formazione che, viste le circostanze, passerà alla storia come definitiva; l’estrema sintesi di un suono passato per quasi mezzo secolo pure attraverso le chitarre di Ritchie Blackmore, Tommy Bolin e Joe Satriani, le (venerate) tastiere di Jon Lord, il basso di Glenn Hughes, gli acuti di David Coverdale e tutti gli altri che per mezzo secolo si sono alternati negli otto “Mark”. «Soprattutto negli anni Settanta, pressati dagli impegni e schiavi del business, non ci rendemmo conto che i rapporti umani venivano prima di ogni altra cosa e questa frenesia è stata all’origine di tante dolorose separazioni. Oggi viviamo le cose con tutt’altro spirito. Un’avventura lunga come la nostra, d’altronde, comporta necessariamente rivolgimenti interni, perdite, conquiste, mutamenti d’organico, e l’unico modo di resistere a tutto ciò è concentrarsi solo sulla musica. Andare avanti nonostante tutto». Da “inFinite”, realizzato con il tocco del produttore Bob Ezrin (Alice Cooper, Kiss, “The wall” dei Pink Floyd) così come il predecessore “Now what?!”, affiorano ogni sera tre-quattro pezzi, il resto dello show poggia su album che hanno consegnato alla band un posto d’onore nella Hall of Fame del Rock’n’roll come “Machine head”, “Fireball” o lo stesso “In rock”.

Non è dato di sapere quanto durerà questo “goodbye”. «Lo decideremo assieme nel modo meno traumatico possibile» assicura Paice. «D’altronde gli Status Quo sono andati avanti per trent’anni con i loro tour d’addio e pure gli Stones hanno annunciato il ritiro negli ormai lontani anni Settanta. Quando finiranno formazioni così la musica perderà qualcosa di importante. Nel rock mainstream, infatti, non ci sono più virtuosi. Manca l’individualità; sono tutti chitarristi ritmici, tutti batteristi che si somigliano. E non riesci più a distinguere un musicista dall’altro».