Contro il virus per primi in Occidente: "Colpiti alle spalle, abbiamo reagito"

Bergamaschi, direttore dell’Ats di Milano (e di Codogno), racconta le scelte difficili durante la prima ondata della pandemia Covid

Walter Bergamaschi, dg di Ats Metropolitana

Walter Bergamaschi, dg di Ats Metropolitana

Milano, 20 febbraio 2021 -  Walter Bergamaschi , 56 anni, direttore generale dell’Ats Metropolitana, entra nel frullatore dell’anno pandemico alle 21.30 del 20 febbraio 2020, con una telefonata di Massimo Lombardo, allora dg dell’Asst di Lodi: "Abbiamo un caso a Codogno". Dieci minuti dopo, l’allora direttore del Welfare Luigi Cajazzo lo invita a Palazzo Lombardia, nell’embrione di quella che diventerà l’unità di crisi del sesto piano.

Ci racconti quella notte. "Prima il contesto: all’epoca la nostra idea era che il coronavirus non fosse qui, che potesse entrare solo attraverso persone arrivate dalla Cina, e che potessimo fermarlo agendo da detective come poche settimane prima, quando avevamo rincorso il percorso dei due turisti cinesi ricoverati allo Spallanzani di Roma dal loro atterraggio a Malpensa".

Era l’idea dell’Oms, e a catena di tutte le autorità sanitarie. "Esatto. Ci siamo subito preoccupati per una diffusione interna all’ospedale di Codogno, dato che il “paziente 1” era stato in pronto soccorso nei giorni precedenti. Cercavamo il “paziente zero”, perché sua moglie aveva parlato di una cena con un amico tornato dalla Cina. Al telefono con lei i nostri epidemiologi iniziarono a ricostruire la mole di contatti che aveva avuto nei giorni precedenti. Pensavamo a tracciare e isolare. Dopo l’una, a Codogno sono arrivati altri pazienti con sintomi gravi. Fu in quel momento che fu presa la decisione di chiudere il pronto soccorso. Il giorno dopo arrivarono altre conferme di contagi, e di ora in ora si capì che la dimensione era più ampia, tanto che la sera, quando arrivò il ministro Roberto Speranza, gli fu proposta un’altra scelta coraggiosa, per l’epoca e a nemmeno ventiquatt’ore dal primo caso: la zona rossa nel Lodigiano".

Quando si capì che non sarebbe bastata? "Domenica 23 finì l’illusione di poter circoscrivere l’epidemia: a 72 ore dal primo caso se ne registravano già 150, e non solo nel Lodigiano. Fu presa un’altra decisione forte: l’ordinanza Regione-Ministero che dal lunedì chiuse scuole, cinema, teatri, i bar dopo le 18, le manifestazioni di ogni tipo in Lombardia. Non erano misure facili da far digerire allora".

Tanto che da lì alla zona arancione istituita l’8 marzo furono pian piano allentate... "La verità è che non c’era consapevolezza di quanto stesse accadendo, e di quanto fosse grave la situazione".

Qual era il suo ruolo? "Coordinavo le Ats e continuavo a fare il dg di quella Metropolitana. Si dice spesso che il sistema sanitario lombardo è debole sul territorio, ma in quel caso fu messo in piedi, da zero, un sistema per fermare o rallentare la diffusione del virus sul territorio. Fu creato subito un sistema di analisi dei dati per capire cosa stesse succedendo e supportare decisioni politiche difficili. In quindici giorni fu ribaltata la rete ospedaliera, con scelte tempestive e rivoluzionarie: dai 17 reparti di Infettivi di riferimento si passò all’ipotesi di ospedali Covid e poi, in un giorno, si scelse di fare 18 hub non-Covid per le altre cure urgenti, dedicando il resto del sistema all’emergenza. Un’idea che faceva tremare i polsi. Si sospese l’attività programmata, in poche settimane si raddoppiarono i letti di terapia intensiva, arrivati a 1.500 ricoverati per Covid in Lombardia in aprile, oltre a 12mila nei reparti, grazie a scelte fatte quando ne avevamo cento. In un contesto difficilissimo, sulla base di dati frammentari, sono state prese decisioni che poi si sono rivelate corrette".

Intanto l’Ats, sino ad allora per molti una sigla oscura, diventava il punto di riferimento per chiedere il tampone, aspettare telefonate di tracciamento e tutte le indicazioni in un contesto di panico e caos. "Noi siamo un’agenzia che nasce per fare contratti e controlli, e ci siamo trovati a gestire operativamente il coordinamento di un’epidemia sul territorio, con numeri pazzeschi. Abbiamo adottato soluzioni estemporanee che ci hanno permesso, con tutti i problemi e i servizi mancati, di tenere in piedi il sistema . In venti giorni abbiamo realizzato un sistema informatico che, alla fine dello scorso gennaio, aveva gestito 655.692 persone tra positivi, contatti stretti e “sospetti”+ segnalati, e un milione 637.094 interazioni complessive tra il Milanese e il Lodigiano. Non è stata banale la scelta di sviluppare subito una rete che condividesse le informazioni tra contact tracer , medici del territorio e sindaci chiamati ad assistere i cittadini, ciascuno con le proprie competenze. Anche se non si è riusciti a monitorare efficacemente tutti coloro che erano a casa; questo è migliorato nel tempo".

Da casa molti avevano l’impressione che non funzionasse niente. "Siamo stati investiti da un terremoto e non eravamo preparati, come non lo era nessuno nel mondo. Ma c’è stata la capacità di reagire, e ha aiutato anche a prendere decisioni corrette le regioni e i Paesi che hanno affrontato la pandemia dopo di noi. Come Ats abbiamo sempre praticato la trasparenza, pubblicando tutti i dati sul nostro sito e dicendo senza paura cosa non riuscivamo a fare; non per scaricarci di responsabilità, ma perché la pandemia richiede uno sforzo di responsabilità indispensabile nei comportamenti individuali, che non possono essere sostituiti dai Dpcm".

La gestione della pandemia in Lombardia è sotto accusa fin dalla prima ondata. "Certo possono esserci stati degli errori, sui quali sarà davvero necessaria una valutazione scientifica e oggettiva, per trarre conclusioni che possano supportare le scelte future. Quello di cui non abbiamo bisogno è una caccia a colpevoli e capri espiatori. Sono convinto che coltivare la memoria senza pregiudizi ed emotività porterà anche a rivalutare l’opera di professionisti, anche di Regione e Ats, che meritano gratitudine e rispetto. Da un anno lavorano senza fermarsi: all’inizio sorretti dall’adrenalina, oggi decisamente più stanchi. E devono continuare a lavorare, dato che la battaglia sarà ancora lunga, senza esser costretti a guardarsi le spalle. È il Covid il nemico da battere".

UN ANNO DI COVID