Sergio Castellitto: "Il teatro è uno schiaffo, ti sveglia"

L'attore al Parenti con "Zorro. Un eremita sul marciapiede", testo di Margaret Mazzantini

L’attore Sergio Castellitto

L’attore Sergio Castellitto

Milano - Di quante sliding door è costellata la nostra esistenza? Snodi esistenziali, allineamenti degli astri, incroci del destino: basta un inciampo e l’orizzonte può cambiare radicalmente. Come in qualche modo è successo a "Zorro. Un eremita sul marciapiede", da stasera al 29 gennaio al Franco Parenti. Un testo di Margaret Mazzantini. In cui il marito Sergio Castellitto racconta di quest’uomo ai margini della società.

Castellitto, chi è Zorro? "Un uomo che vive in strada ma che in realtà un tempo era perfettamente inserito nella società civile, con un lavoro, un amore, degli amici. Una serie di circostanze e di traumi l’hanno portato a perdere tutto. E così ora è immerso in questa sorta di osservatorio particolare che è il marciapiede, cercando di scoprire qualcosa della propria esistenza. Una situazione che tuttavia non gli impedisce di avere grande dignità".

Come si confronta con il mondo? "Succede spesso che la sua condizione permetta di captare sentimenti ed emozioni a cui non si è più così abituati, di cui tendiamo a non accorgerci o che sacrifichiamo in favore di schemi e di regole di comportamento".

Il monologo nasce nel 2002, perché riprenderlo oggi? "È un testo che all’epoca mi regalò mia moglie per tornare a teatro. Un dono in cui ci siamo imbattuti di nuovo durante il lockdown, scoprendo il bisogno di parlare di solitudine, complice anche l’inedita situazione di silenzio. E nelle poche repliche fatte finora, mi sono accorto come il ritmo e l’intensità delle parole siano visceralmente condivisi dal pubblico".

Come si è avvicinato al lavoro dopo vent’anni? "Ritornare a una scrittura significa intanto rileggerla e osservare come alcune cose rimangano immutate mentre altre necessariamente si riplasmino, trovando nuove forme. C’è poi la riflessione su come gli artisti siano spesso dei clochard che ce l’hanno fatta. Si condivide una natura vagabonda, errante. Dove ci si alterna in situazioni in cui si vive la moltitudine per poi risprofondare nella solitudine. Chiaramente nel nostro caso in un contesto di grande privilegio".

A volte basta davvero un nonnulla. "Margaret scrive che in ogni vita ce n’è almeno un’altra, di cui non sapremo mai niente".

Un po’ strano vederla sul palco da solo. "È una decisione che rivendico e che mi procura solo gioia. Potrei fare altro ma preferisco rimandare i progetti a dopo la tournée. So che per alcuni colleghi il teatro diventa un ripiego. Per me è sempre una scelta, oltre ad essere il luogo che mi fa stare bene. Una ritualità antica eppure modernissima di fronte all’abitudine di rimanere sprofondati nel divano o di addormentarci davanti a una serie tv, che almeno ci fanno risparmiare in sonniferi. Il teatro invece è uno schiaffo, magari affettuoso ma ti tiene sveglio".

Lei pare uno di quegli attori antichi, che si concedono di lavorare dove gli pare o di portare Eduardo in tv. "Il successo è la libertà di scegliere. E dura nel tempo. In questo vedo il senso del mio mestiere, altrimenti ci si ferma ai 5 minuti di visibilità che arrivano per tutti. Per le stesse ragioni credo che la performance abbia un valore relativo e mi considero per prima cosa un narratore. A teatro questo diviene il confrontarsi ogni sera con un’energia unica. Un qualcosa che ti diverte e che ti tiene in vita. Pensi solo al valore della parola".

Cosa intende? "Quando parlo di “casa“, ogni spettatore s’immagina qualcosa di diverso e di simile: la sua casa. E questa è la libertà dell’immaginazione a teatro".

 

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