Neopapà a casa per scelta: "Conviene sempre di più"

Oltre tremila casi in Lombardia: manca il welfare

Neopapà

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Milano, 26 asgosto 2019 - Sono 3.269 i padri che in Lombardia, l’anno scorso, hanno scelto di lasciare il posto di lavoro dopo la nascita di un figlio. Uomini che decidono di occuparsi della cura del bimbo, consentendo alla compagna di proseguire la carriera nei casi, sempre meno rari nell’era del terziario avanzato, in cui la donna ha un lavoro meglio retribuito rispetto all’uomo. Oppure hanno rassegnato le dimissioni perché hanno trovato un lavoro più gratificante e con uno stipendio più alto.

«Spesso la causale indicata dagli uomini è quella del cambio di lavoro, mentre per le donne è nella maggior parte dei casi l’incompatibilità tra il lavoro e la cura della prole», spiega Paola Mencarelli, responsabile Politiche di genere della Uil Milano e Lombardia e Consigliera di parità regionale, figura che ha il compito di vigilare e intervenire nel caso di discriminazioni sul luogo di lavoro. Un fenomeno, quello dei neopapà che si dimettono entro il primo anno di vita del bambino (periodo coperto da agevolazioni e tutele), che sta prendendo sempre più piede. Ed è ancora concentrato nel Nord Italia, come emerge dai dati dell’Ispettorato nazionale del lavoro. Se nel 2017 sono stati 2.731 gli uomini che in Lombardia hanno rassegnato le dimissioni nel primo anno di vita del figlio, nel 2018 il numero è salito a 3.269.

«Si conferma la prevalenza delle dimissioni/risoluzioni consensuali del lavoratori maschi nelle regioni settentrionali - si legge nel rapporto ministeriale - dove ne sono state convalidate 10.193, pari a circa il 76% del totale». E la crescita in termini assoluti, a livello nazionale, è stata del 49%. Anche nel Centro e nel Sud Italia i casi sono in aumento. Se nel 2017 si concentrava a Sud solo il 3.8% delle dimissioni di neopapà, l’anno successivo è stata raggiunta quota 12%: un incremento di oltre otto punti percentuali. Le donne che decidono di rimanere a casa nel primo anno di vita del bambino (ottenendo il pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso e la Naspi) sono, però, ancora la stragrande maggioranza, il 73% dei casi a livello nazionale. E, come per gli uomini, il trend è in aumento. Solo l’anno scorso, in Lombardia, 10.727 donne hanno lasciato il lavoro nel primo anno di vita del figlio: 946 in più rispetto al 2017, quando erano state 9.781. Si tratta nell’83% dei casi di lavoratrici italiane, nella fascia d’età fra 34 e 44 anni, con almeno tre anni di anzianità di servizio, con un solo figlio. E la motivazione più ricorrente espressa è «l’incompatibilità tra l’occupazione lavorativa e le esigenze di cura dalla prole».

Tra le pieghe dei dati si nascondono gli abusi, che in questo caso risparmiano i neopapà. Donne sottoposte a mobbing, trasferimenti coatti, pressioni psicologiche, demansionamenti e cambi di orari con l’obiettivo di spingerle alle dimissioni “volontarie”. Sistemi sempre più raffinati per evitare il rischio di ricorsi in Tribunale. «Gli abusi restano un fenomeno sommerso - prosegue Mencarelli - difficile da quantificare, anche perché nella maggior parte dei casi non ci sono denunce o segnalazioni. Le neomamme sono in difficoltà perché mancano asili nido, non ci sono aiuti e l’unico welfare che funziona è quello familiare. Servirebbe un cambio radicale di mentalità, e un lavoro di educazione e contro gli stereotipi che parta dai bambini, i cittadini di domani».

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