L’abbraccio degli angeli del Covid: "Ci curarono anche con la speranza"

L’incontro tra i medici americani di Samaritan’s Purse e gli ex pazienti dell’ospedale da campo di Cremona

Si sono rivisti ieri dopo più di due anni e mezzo e per la prima volta in faccia. Per qualcuno la seconda, perché alle dimissioni dall’ospedale da campo nel parcheggio dell’ospedale di Cremona s’erano abbassati la mascherina per salutarlo, i medici e gli infermieri di Samaritan’s Purse, l’organizzazione evangelica americana che in due mesi, tra marzo e maggio 2020, ha curato più di 280 dei primi pazienti Covid e tutti "nel nome di Gesù". Alcuni di quei samaritani sono a Milano insieme al reverendo Franklin Graham, presidente di Samaritan’s Purse e della Billy Graham Evangelistic Association che organizza, oggi alle 18.30 al Forum di Assago, il Noi Festival: evento aperto a tutti e storico, con 530 chiese evangeliche riunite per la prima volta.

Anche l’incontro più intimo di ieri, in un albergo di piazza Repubblica, rivive un evento storico per chi abita la Lombardia e in particolare la sua striscia centrale (le province di Bergamo, Lodi e Cremona fin giù oltreconfine al Piacentino) che diventò alla fine del febbraio 2020 uno dei primi focolai al mondo della pandemia del Sars-CoV-2, il primo dopo Wuhan. In quelle settimane allucinanti, in cui i lombardi si sentirono in pericolo, soli, persino sotto accusa, ebbero un impatto morale immenso aiuti sparsi, dai trasferimenti di pazienti che saturavano le terapie intensive (la Germania ne ricoverò 42, rispetto ai 78 accolti solo da alcune altre regioni italiane) all’invio di medici e infermieri che qui mancavano come l’aria. Una piccola Babele di lingue e motivazioni diverse, dagli albanesi a Brescia ("Non siamo ricchi ma neanche privi di memoria", disse il premier Edi Rama) alla trentina di sanitari russi (su oltre cento militari sbarcati con 13 quadrireattori, sollevando a posteriori più di un sospetto) che curavano i bergamaschi con Emergency e gli alpini. L’ospedale da campo di Crema lo gestivano i cubani, arrivati marciando con la foto di Fidel, quello di Cremona gli evangelici come il dottor Bob Spencer e la dottoressa Julie McKay, che vengono dall’altra parte del canale, dalla Florida, e di ogni cosa rendono "gloria a Dio", aiutandolo con quello che la scienza permette alla medicina.

E una fede che ha colpito Gegè Rossi, direttore generale dell’Asst di Cremona: "In quel momento l’istinto era di fuggire, medici e infermieri avevano paura, alcuni morivano, eravamo tristi e sopraffatti e loro sono venuti ad aiutarci col sorriso, non costretti ma perché l’avevano scelto. Noi lavoravamo con dolore, loro con gioia: è stata una svolta". Che a Federica Pezzetti s’è manifestata per le vie misteriose di una mail alle 23 del 16 marzo, "venti domande sul parcheggio dell’ospedale" di Cremona di cui è direttrice medica, e dove, grazie a un centinaio di colleghi volontari o ingaggiati da tutt’Italia e anche rientrati dall’estero, aveva già tirato fuori altri 52 letti di rianimazione oltre agli otto in dotazione, ma ancora non bastavano: "Il giorno dopo erano lì queste persone fantastiche, che ci hanno aiutati anche trasmettendoci la speranza".

Anche al reverendo Graham era sembrato strano sentire che uno dei tre ospedali da campo pensati da Samaritan’s Purse per emergenze tipo Ebola in Africa serviva con urgenza in Italia, ma ha detto subito "ok" e, col supporto logistico della base Nato e della nostra Aeronautica, il 20 marzo il primo paziente entrava nell’ospedale del parcheggio, 68 posti di cui 8 di rianimazione. "In Italia non siamo abituati alle tende - osserva Pezzetti –, eppure vedevamo i pazienti curati dal punto di vista medico ma anche spirituale e umano". I pazienti di allora si ricordano il freddo e il bagno chimico, ma anche la solidarietà scattata tra loro del "campeggio"; e i medici e gli infermieri di Samaritan’s Purse, che "si abbracciavano, pregavano e poi si facevano un turno filato di 12 ore"; che "erano lì 24 ore su 24 compresi gli interpreti, arrivavano alla prima chiamata, si fermavano per una “coccola”".

Alleviavano quel senso di abbandono, la paura di non essere curati che popolava gli incubi rimasti come unico strascico del Covid a Rosvaldo Felisari, 72 anni, di Olmeneta: "Soffro di claustrofobia, non riuscivo a tenere il Cpap, urlavo che avrei firmato perché mi lasciassero morire. Poi sono riusciti a intubarmi". In quaranta giorni tra ospedale regolare e "campeggio" ha perso più di venti chili, "eppure ne sono uscito con un’altra visione della vita. Io ho studiato in seminario ma non sono così religioso, questi credono. Dove non arrivavano con le cure arrivavano col cuore". Quella fede ha colpito anche Claudio Ruggeri, 57 anni, che ha temuto di morire a 55 "come era successo a mio padre. Anche se non mi rendevo conto di essere messo così male". La dottoressa McKay è sicura che abbia ricevuto "un grande miracolo". Claudio appena ha potuto ha sentito il bisogno di "aiutare gli altri", e ha iniziato facendo da interprete-bis al vicino di branda, che parlava in dialetto.

 

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