Dimissioni in massa: il governo di Boris Johnson al capolinea

Una delegazione dei Tory a Downing Street per chiedere le dimissioni del premier, intanto 42 tra ministri e funzionari lasciano l'esecutivo

Il governo di Boris Johnson sembra davvero al capolinea. Sono 42 finora i conservatori che hanno lasciato il governo britannico e la valanga non sembra fermarsi. L'ultimo in ordine di tempo a dimettersi è stato Michael Gove, responsabile dello strategico portafogli del Livellamento delle Disuguaglianze Territoriali e sodale del premier attuale nella campagna referendaria pro Brexit del 2016. In questo momento una delegazione, secondo la Bbc, guidata dal ministro-capo gruppo (chief whip) Tory alla Camera dei Comuni, Chris Heaton-Harris, e i ministri dei Trasporti, Grant Shapps, Brendon Lewis e Simon Hurt sarebbero arrivati al numero 10 di Downing Street per chiedere le dimissioni del premier, che durante l'audizione di fronte al coordinamento dei presidenti di commissione della House of Commons ha risposto seccamente: "Non mi dimetto, continuerò nel ruolo per il quale sono stato eletto".

Il caso Pincher Boris Johnson sapeva. Lo scandalo che ha costretto alle dimissioni il suo ex braccio destro, Chris Pincher, da deputy chief whip e dall'incarico cruciale di sorvegliare la disciplina del gruppo di maggioranza alla Camera dei Comuni, per essersi ubriacato in un gentlemen club di Londra e aver poi molestato due uomini, incluso un altro deputato, rischia di travolgere anche il premier britannico. Lo scorso febbraio, infatti, uno dei deputati "molestati" da Pincher si sarebbe andato a lamentare del suo comportamento direttamente a casa di Johnson raccontando per filo e per segno quello che era successo. Downing Street nega che il premier fosse a conoscenza di formali contestazioni su Pincher, bensì solo di voci e di sospetti, ma c'è il fatto che Johnson aveva già ricevuto una segnalazione di "comportamento inappropriato" fatta contro Pincher" già all'inizio del 2020, quando questi era ancora viceministro degli Esteri. Nel dettaglio, mister Pincher avrebbe una predilezione per i "pizzicotti" alle terga dei molestati.

Il partygate Johnson era stato travolto dalle critiche anche dopo la pubblicazione di alcune foto che lo ritraevano a una festa affollata il 13 novembre 2020, quando le regole anti-Covid sull'isolamento e il distanziamento sociale erano molto rigide. 

Cosa può succedere? Gli scenari sono abbastanza ridotti e hanno tutti a che vedere con la sua uscita di scena. Nessuno si aspetta che una situazione del genere possa essere recuperata e ormai sono in troppi, fra i conservatori a non volerlo. L'attuale scenario prevede diverse opzioni per il cambio di leadership. L'ipotesi più semplice è quella delle dimissioni. In questo caso, BoJo avrebbe due strade davanti a sè: indire nuove elezioni oppure lasciare che il partito nomini un successore e un governo di transizione fino al ritorno alle urne previsto per gennaio 2025. Se  Johnson non si dovesse dimettere, i conservatori potrebbero usare le cosiddette maniere forti e costringerlo a farlo modificando il regolamento del Comitato 1922.

Il regolamento e la sfiducia Secondo le regole attuali, se un primo ministro ha affrontato con successo una mozione di sfiducia - come accaduto a  Johnson il mese scorso - può rimanere a capo del partito per un altro anno. I conservatori però minacciano di cambiare il regolamento in modo da avviare una nuova mozione di sfiducia e, in sostanza, cacciarlo prima della scadenza di un anno. In teoria, pur cambiando le regole, una nuova mozione di sfiducia potrebbe avvenire solo in autunno, quando la commissione per i privilegi avra' stabilito se Johnson ha mentito in Parlamento oppure no. Ma proprio in queste ore, si susseguono voci secondo le quali all'interno del partito e' in corso un dibattito per bypassare questa ipotesi e autorizzare una nuova mozione nel giro di pochi giorni. Tutto dipendera' dal clima che si creerà intorno a Johnson e, per adesso, non è dei migliori. La sua intenzione di rimanere al comando sembra stia diventando un furioso braccio di ferro fra lui e il suo stesso partito.