Omicidio Dalla Chiesa 40 anni dopo: "Mia sorella e il generale uniti anche nella morte"

Il fratello di Emanuela Setti Carraro: "L’ultima volta che l’ho sentita? Quando mi annunciò le nozze con il prefetto che seguì a Palermo"

Carlo Alberto Dalla Chiesa e Emanuela Setti Carraro il giorno delle nozze

Carlo Alberto Dalla Chiesa e Emanuela Setti Carraro il giorno delle nozze

Milano -  «L’ultima volta che ho visto Manuelina è stata quando mi ha annunciato le nozze con Dalla Chiesa. Lo ha fatto in maniera molto delicata, voleva accertarsi che il suo matrimonio non rappresentasse per me un momento di difficoltà esistenziale, professionale, sociale". Paolo Setti Carraro è un medico che oggi ha 73 anni. È uno dei due fratelli di Emanuela Setti Carraro. Il 3 settembre 1982 a Palermo la strage di via Carini ordinata da Cosa Nostra: muoiono il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo, Emanuela, sua moglie da 54 giorni, l’agente di scorta Domenico Russo. La scomparsa della sorella è stato "uno spartiacque" nella vita di Paolo, che è vissuto "come in un congelatore" per più di trent’anni e per tredici ha lavorato come chirurgo in Afghanistan, Sierra Leone, Sudan, Ciad, nei territori palestinesi occupati, Iraq ("aiutando anche a nascere tanti bei bambini").

Quarant’anni dopo. "Rifletterei su quanto è accaduto in questi 40 anni. Mi sembra che la situazione della Sicilia sia estremamente grave e che si sia tornati di gran lunga indietro. Con Falcone e Borsellino, con il maxi-processo, si erano fatti grandi passi in avanti nella lotta a Cosa Nostra. Dopo la morte di Falcone e Borsellino si è andati incontro a una sorta di normalizzazione".

In che forme? "Che un politico dopo una condanna passata in giudicato e avere pagato il suo debito torni a fare politica è assolutamente legittimo. Ma non è conveniente. Trovo che la classe politica siciliana e quella nazionale non distinguano fra quello che è legittimo e quello che è etico".

Via Carini. Perché Emanuela? Perché “anche” lei? "Ho letto gli scritti che ha lasciato Emanuela. Mia madre ha pubblicato un libro. A Palermo Emanuela e Carlo Alberto si spostavano con mezzi alternativi all’auto di servizio. Cambiavano continuamente percorso, orari. Non comunicavano le loro destinazioni. Era l’esperienza militare di Dalla Chiesa, la sua ‘fantasia’. Era la consapevolezza di entrambi del pericolo che li univa".

Si è parlato di carte custodite da Dalla Chiesa di cui la moglie conosceva l’esistenza. "Dalla Chiesa aveva iniziato la bonifica della prefettura di Palermo. Evidentemente non era ancora completata. Appena arrivato, senza avere ricevuto il benvenuto dalla politica locale, si era fatto dare l’elenco dei dipendenti e aveva scoperto che più d’uno aveva rapporti con i clan. Quanto ai documenti che si sarebbero potuti trovare in cassaforte, per giorni non si trovarono le chiavi. Quando la cassaforte venne finalmente aperta conteneva una scatola vuota e pochi oggetti di Emanuela. Non mi sorprende. Pensiamo all’agenda rossa di Borsellino sparita in via D’Amelio. E la borsa di Falcone che fine ha fatto?".

Da anni lei partecipa nelle carceri di San Vittore, Opera, Bollate a incontri con i detenuti. Ha conosciuto uomini di Cosa Nostra? "Ci sono persone di spessore criminale, killer delle varie mafie, molti ergastolani, quasi tutti ostativi. Noi siamo la società esterna che entra in carcere. Portiamo i nostri mondi che loro non hanno conosciuto. I detenuti ci parlano della loro vita, del male che hanno causato, di cosa ha rappresentato per loro la vittima, non una persona ma l’oggetto, il denaro, l’auto, la proprietà. Posso dire che ho imparato tanto".

Incontrerebbe gli assassini di Emanuela? "Penso che dovrebbero essere loro a chiederlo. In quel caso sarei disponibile a un incontro".

Potrebbe perdonarli? "Quello che mi auguro è che ci sia un riconoscimento reciproco fra chi ha sofferto il male e chi ha causato quel male, che si è assunto le proprie responsabilità e si è ravveduto".

Chi era Emanuela? "Mia madre vedeva una Emanuela santa e da parte sua ci sono state delle forzature. Lo posso capire. Il problema è che se metti una persona sull’altare, ne fai un soggetto perfetto, ma anche lontano, distante, perché non si può imitare la perfezione. Emanuela era una ragazza del suo tempo con grandi qualità. Lavorava. Ha fatto il corso da crocerossina. Ha incontrato Danièle Nicolas Citterio, che in quegli anni aveva introdotto l’ippoterapia in Italia e con il suo sostegno e grazie a molteplici sostegni, ha attivato il centro di terapia presso la caserma Perrucchetti, artiglieria a cavallo, di Milano. C’è stato un momento in cui in Italia c’erano oltre cinquanta centri di ippoterapia e più della metà erano intitolati a Emanuela".

Cosa ha lasciato, oltre ai ricordi, ai rimpianti? "Una cosa che anch’io ho cercato di applicare: quando è morta stava iniziando a restituire alla società quello che la società le aveva dato".