Brescia, Sana Cheema uccisa per il no alle nozze: padre e fratello a giudizio

La ragazza fu strangolata dopo aver rifiutato il diktat del matrimonio. L’accusa: omicidio aggravato dalla premeditazione e dal vincolo familiare

Sana Cheema

Sana Cheema

Brescia -  Il 18 aprile 2018 morì in Pakistan, nel Paese d’origine, in circostanze controverse. Per la famiglia si trattò di una disgrazia, di un improvviso malore. Per la Procura generale, invece, fu strangolata dai parenti perché rifiutava il diktat delle nozze combinate dal clan. E quel femminicidio fu un delitto politico. Torna alla ribalta il caso di Sana Cheema, la 25enne italo-pakistana cresciuta a Brescia che l’accusa ritiene “giustiziata“ dal padre e dal fratello durante un viaggio nel villaggio natale. Ieri il gup, Matteo Grimaldi, ha rinviato a giudizio Mustafa Cheema, 54 anni, cittadino italiano come la figlia, e il primogenito Adnan, 34, per omicidio aggravato dalla premeditazione, dal vincolo familiare e dall’abuso di rapporto parentale. Il processo inizierà il 20 dicembre davanti alla prima sezione della Corte d’Assise. Il giudice ha accolto la prospettazione accusatoria dell’ex procuratore generale Pierluigi Dell’Osso - in aula c’era il pm Marzia Aliatis - che prima di andare in pensione avava avocato l’inchiesta e si era dato molto da fare per dare a Sana giustizia. I Cheema erano già stati processati in Pakistan per l’omicidio, e assolti dai giudici di Gujrat per insufficienza di prove. Coimputati erano non solo il padre e il fratello, ma anche la madre, Nargis Tahira, e nove persone, tra cui gli zii, tutti scagionati per la stessa ragione. E questo sebbene il capofamiglia in fase d’indagine avesse ammesso le proprie responsabilità, salvo poi ritrattare. Le sue dichiarazioni, rese senza un legale, non furono ritenute utilizzabili. Per dribblare il principio giuridico del “ne bis in idem“, il divieto del doppio giudizio per il medesimo fatto, Dell’Osso offrì una chiave interpretativa nuova. L’omicidio fu compiuto sì in Pakistan, ma da una famiglia da anni trapiantata a Brescia, la sua tesi.

Gli imputati avrebbero provocato la morte della ragazza "per asfissia meccanica violenta da compressione del collo mediante strangolamento, annullando nel contesto sociale, politico ed economico caratterizzato da organizzazione per caste, i diritti politici e sociali fondamentali della vittima, soppressa per avere rifiutato il matrimonio combinato". Andate a vuoto le proposte di una serie di mariti, padre e fratello le avrebbero tappato per sempre la bocca proprio il giorno prima del suo rientro a Brescia. Il genitore l’avrebbe immobilizzata nella camera da letto dell’abitazione, il fratello le avrebbe stretto la gola con il “dupat“, un foulard tradizionale. Rimasti a lungo irreperibili, i Cheema decisero di nominare l’avvocato Klodjan Kolaj per perorare la propria innocenza anche in Italia. Ieri in tribunale non c’erano, ma il suo legale giura siano raggiungibili e pronti al processo.