Il direttore del carcere: "Il modello Bollate non si discute"

Massimo Parisi difende il metodo improntato alla fiducia malgrado le cinque fughe in due anni: "I progetti di reinserimento pagano"

Il carcere di Bollate

Il carcere di Bollate

Bollate (Milano), 14 settembre 2016 - Difende il "modello Bollate" anche dopo l’evasione di fine agosto di una donna rom italiana, il direttore del carcere di Bollate, Massimo Parisi. La quinta fuga in due anni non mette dunque in discussione il carcere modello dove ben 200 detenuti sono ammessi al lavoro esterno con l’articolo 21 e altre centinaia usufruiscono di permessi premio.

Eppure, direttore, l’evasione di un detenuto deve fare riflettere. O no?

"Quando accade un episodio del genere nessuno di noi minimizza il problema. Le fughe o meglio i mancati rientri sono degli eventi critici che per noi rappresentano il fallimento su una singola persona e non dell’intero carcere. Quando si verificano sono motivo di riflessione sul detenuto per comprendere i motivi, valutare se ci sono affinità tra le evasioni, capire come migliorare il sistema di sorveglianza e se possiamo prevenire altre fughe".

L’altra faccia della medaglia di un sistema penitenziario che scommette sui detenuti?

"Sicuramente sì. In una recente inchiesta su carceri aperti come il nostro, si conferma che la recidiva dei detenuti è di gran lunga inferiore, a Bollate è del 16% rispetto a un media nazionale che supera il 50%. Per arrivare a questi risultati riponiamo fiducia nei detenuti e investiamo in progetti di reinserimento che a volte non vanno a buon fine o devono fare i conti con questi eventi critici".

Come arrivano i detenuti al lavoro fuori dal carcere?

"Ogni detenuto prima di essere ammesso al lavoro all’esterno deve fare un percorso di reinserimento sociale e poi viene sottoposto ad una valutazione. Quando gli viene concesso il regime dell’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario si scommette su di lui perché il suo percorso è stato lineare e positivo. Se poi per un colpo di testa o altri motivi decide di non rientrare in carcere mettendo in discussione tutto e aggravando la sua posizione con la giustizia, è difficile da prevedere".

Quindi andate avanti cosi?

"Sicuramente la fuga di un detenuto suscita preoccupazione nell’opinione pubblica, ma i risultati positivi di questi anni con i detenuti ci inducono a proseguire con questo modello che si basa sul cosiddetto patto trattamentale: l’amministrazione penitenziaria offre opportunità e il detenuto s’impegna attivamente in percorsi che gradualmente lo possono riportare, in modo adeguato, nel contesto sociale".