Barbara Calderola
Archivio

Da Vimodrone all'Isis, l’ultimo messaggio: "Ci rivedremo in paradiso"

Don Burgio e i due ragazzi sfuggiti alla salvezza per il martirio

Miliziani dell'Isis  (zuma news)

Miliziani dell'Isis (zuma news)

Vimodrone (Milano), 17 luglio 2016 - «Grazie di tutto. Che dio ti illumini sulla vera retta via. Ci rivedremo in paradiso. Inshallah». È l’ultimo messaggio che Monsef El Mkhayar ha scritto a don Claudio Burgio. Suo padre per cinque anni, di fatto. L’unico che abbia mai avuto, viene da aggiungere, prima che l’Isis lo ammaliasse e lo fagocitasse, insieme a migliaia di altri giovanissimi. Era il gennaio 2015, pochi giorni prima di scoprire l’altra storia che ha fatto scalpore, quella di Fatima a Inzago, in questo hinterland stralunato, alle prese con il fondamentalismo islamico, con la conversione che diventa lotta armata.

«In questa follia Monsef ha trascinato Tarik Aboulala, il classico bravo ragazzo», ricorda don Claudio. Con lui i due foreign fighter hanno vissuto cinque anni fra le mura di Kayros, la comunità per minori in difficoltà che Burgio ha aperto a Vimodrone dopo il training al Beccaria, insieme a don Gino Rigoldi. «Non riesco ancora a credere che Tarik sia morto combattendo per il Califfato e che contro Monsef ci sia un mandato di cattura internazionale. Erano i miei ragazzi».

Tanto studioso con un futuro davanti il primo, Tarik, quanto difficile e introverso, il secondo, il trascinatore Monsef. Erano arrivati dal Marocco quasi insieme, da ragazzini, entrambi classe 1995. Tarik si era messo sui libri, licenza media, diploma, era diventato perito meccanico e aveva cominciato il tirocinio in azienda. «Era quasi riuscito», racconta don Claudio. A emanciparsi, a lasciarsi alle spalle la ferita della madre lontana in un deserto sperduto, della famiglia spezzata, dell’infanzia tradita dalla vita e dalla storia. «Si era inserito subito», ancora Burgio.

Di segno opposto la quotidianità dell’amico. Monsef si può riassumere in un’altra frase che si lega perfettamente a quell’ultimo messaggino per don Claudio. «Ho due genitori, ma non ho mai avuto un papà e una mamma». Abbandonato da entrambi, il futuro combattente a 16 anni era già sbandato. Quando è arrivato in comunità combatteva le ferita insanabile della solitudine con le droghe. Solo il calore che ha trovato fra le mura di Kyros ha evitato il peggio. Sembrava che le cose si fossero rimesse in carreggiata, «fino a quel misterioso viaggio», rievoca don Claudio. A giugno 2014 Monsef, ormai maggiorenne, accompagna alcuni amici musulmani a Bologna - si crede, ma non è certo - in occasione del Ramadan. «Quando è tornato non era più lo stesso. Aveva subìto una vera e propria metamorfosi: niente più canne o sigarette, aveva smesso di fumare, di colpo. In campo, quando giocava a calcio, lui che era sempre stato attaccabrighe, si era trasformato in un gentleman. Era quasi incredibile. Col senno di poi, ho capito che quello è stato il momento della radicalizzazione».

L’abbraccio mortale col Califfato - «gli ha sicuramente dato un senso di appartenenza per lui sconosciuto» - cominciava a dare i suoi frutti. E nella nuova ansia di arruolare e di piegare altre anime alla causa, ci ha provato addirittura con don Claudio. «Voleva convertirmi», ricorda il sacerdote, oggi. Tarik e Monsef sono rimasti a Milano, dove si erano trasferiti, ancora qualche mese dopo la trasferta della svolta. Poi, in una gelida mattina di gennaio, si sono imbarcati a Orio al Serio con destinazione Turchia. Hanno attraversato il paese in pullman, fino in Siria. Un selfie spedito al loro prete, alla loro guida, li ritrae sorridenti mentre corrono verso il destino che si sono scelti. «Senza nessuna consapevolezza, ne sono convinto», dice commosso Burgio. È l’ultima immagine dei due, fratelli nel nome di Allah. Tarik è morto con le armi in pugno e il cappuccio nero in testa, Monsef è in cima alla lista dei ricercati internazionali. Nemico della nazione. Nemico dell’umanità.