Strage di Pontevico: "Da 25 anni aspetto Manolo con la rabbia del primo giorno"

Aveva 28 anni quando, la notte di Ferragosto del 1990, il serbo Ljubisa Vrbanovic, soprannominato Manolo per le sue imprese efferate in terra iberica, con il nipote Ivica Bairic, massacrò a colpi di pistola i genitori di Guido, Giuliano e Agnese, di 58 e 53 anni, e i fratelli Luciano e Maria Francesca, 28 e 23 anni di Gabriele Moroni

 Guido Viscardi dopo il rinvenimento dei familiari uccisi nell'agosto 1990

Guido Viscardi dopo il rinvenimento dei familiari uccisi nell'agosto 1990

Pontevico (Brescia), 27 luglio 2015 - «Del processo a Brescia a quell’animale l’ho saputo dai giornali. Di ufficiale non ho ancora ricevuto niente. Domani proverò a informarmi. Sono venticinque anni che aspetto, ma la rabbia è ancora quella del primo giorno. Tutta la rabbia che ho bevuto e mangiato e che mi ha fatto ammalare». La grande croce di legno, ricavata dal parquet, è sempre lì, nel prato del giardino della villetta color caffelatte a Torchiera, minuscolo borgo della Bassa Bresciana, comune di Pontevico. Guido Viscardi è quello di sempre, parco nelle parole che estrae quasi con fatica, intingendole spesso nel dialetto. Aveva 28 anni quando, la notte di Ferragosto del 1990, il serbo Ljubisa Vrbanovic, soprannominato Manolo per le sue imprese efferate in terra iberica, con il nipote Ivica Bairic, massacrò a colpi di pistola i genitori di Guido, Giuliano e Agnese, di 58 e 53 anni, e i fratelli Luciano e Maria Francesca, 28 e 23 anni. Una mattanza per rapinare un pugno di banconte da centomila lire. Adesso la Corte d’Assise di Brescia ha fissato il processo a Manolo per il 14 dicembre. Il giovane Viscardi si salvò perché era l’unico dei figli a essere sposato, viveva con la moglie e la prima dei loro quattro figli, Samuela. Fu lui a scoprire l’eccidio la mattina dopo. Vide il sangue filtrare sotto la porta, mandò via la bambina, spalancò quella porta davanti all’orrore.

«Avevo perso le speranze. Tre o quattro anni fa, al cimitero, uno mi aveva detto che non si sarebbe fatto più niente, che sarebbe finita in prescrizione. Il morale mi era sceso sotto i piedi. Era una mancanza di rispetto per quei quattro morti. Si vede che è successo qualcosa, magari mio padre e mia madre sono andati a tirare i piedi a qualcuno. Qualcuno si è svegliato». Il silenzio. La solitudine. «Se non mi fossi sforzato di tenere viva la memoria, tutto sarebbe stato dimenticato. I giornalisti si fanno vivi ora, ma per tanto tempo non si era sentito nessuno. Già il giorno dopo gridavo ‘Aiutatemi, aiutatemi’. L’ho gridato per tutti questi anni. Ho cercato di non rassegnarmi». Una parola, inevitabile: rabbia. Un nome: Manolo. «La rabbia è quella del primo giorno. Mi è arrivata addosso questa cosa e me la sono dovuta bere e mangiare. Mi sono anche ammalato. Ho cercato di vivere un po’, con il mio dolore, senza farlo pesare a chi avevo vicino. Tutto per quell’animale. È il mio chiodo fisso di tutti i giorn. Ci sarà il processo. Voglio togliermi un po’ di sassi dalle scarpe».

gabriele.moroni@ilgiorno.net