Delitto Macchi, l'avvocato di parte civile chiede la ricusazione dei giudici

Un colpo di scena dietro l'altro al processo d'Appello per la morte della giovane uccisa a Cittiglio nel 1987

Stefano Binda

Stefano Binda

Milano, 18 luglio 2019 - Ha chiesto la ricusazione del collegio della Prima sezione della Corte d'Assise d'Appello di Milano, presieduta da Ivana Caputo, per "manifesta anticipazione di giudizio", l'avvocato Daniele Pizzi, legale di parte civile nel processo di secondo grado a Milano a carico del 51enne Stefano Binda, imputato per l'omicidio di Lidia Macchi, uccisa a Cittiglio (Varese) nel luglio 1987. "Non ci sono le condizioni per arrivare alla conclusione finale dinanzi a questo collegio giudicante", ha detto il legale dopo l'udienza, parlando con i giornalisti. "Auspichiamo che il presidente della Corte d'Appello intervenga - ha aggiunto l'avvocato - perché questa Corte non si è mai pronunciata sulle questioni sollevate sin dalla prima udienza, ha continuato ad anticipare che il 24 luglio si sarebbe svolta la discussione".Secondo il legale, si chiederebbe alle parti di concludere la prossima udienza "senza avere sciolto la riserva sulla perizia grafologica e sulla perizia merceologica, sull'acquisizione documentale chiesta dalla procura generale, e dando un termine alle parti di pochi giorni per preparare le discussioni". 

L'udienza di oggi ha riservato anche altri colpi di scena. Il segreto mi sta «lacerando l'anima, ho una famiglia, ho dei figli. Ho scritto io la lettera inviata alla famiglia di Lidia Macchi». Con queste parole, un cliente dell'avvocato Piergiorgio Vittorini, avrebbe detto di essere l'autore del testo mandato dopo l'omicidio di Lidia Macchi, la giovane uccisa a Cittiglio nel 1987. Lo ha detto lo stesso Vittorini, sentito come testimone nel processo di secondo grado a carico di Stefano Binda. Vittorini, avvalendosi del segreto professionale, non ha rivelato l'identità del teste.

Secondo gli inquirenti, invece, quel testo inviato alla famiglia Macchi e intitolato 'In morte di un'amicà, fu scritto dallo stesso Binda, che è stato condannato in primo grado all'ergastolo per omicidio volontario aggravato dalla violenza sessuale. Nella sua testimonianza questa mattina in aula, il penalista ha riferito che una persona si sarebbe presentata nel suo ufficio, alla fine del febbraio 2017, sostenendo di avere scritto la missiva come forma di «protesta» contro una morte ingiusta.

«Non conoscevo Lidia Macchi, ma condividevamo lo stesso contesto di Comunione e Liberazione a Varese», avrebbe detto il cliente a Vittorini. Cliente che sarebbe anche «una persona laureata, con un alto livello professionale». Secondo la testimonianza del penalista, il suo cliente gli avrebbe detto di non essersi mai presentato prima alla polizia perché non è in grado di fornire un'alibi per la sera del delitto. «In quel periodo ero a Milano - ha detto - ma non riesco proprio a ricordare dove fossi la sera del delitto».

La Procura ha mosso alla deposizione dell'avvocato bresciano due contestazioni. La prima sui tempi e le modalità di spedizione alla famiglia Macchi; la seconda sui motivi della decisione di rilevare l'identità del proprio cliente. L'avvocato Vittorini, nel primo caso, ha risposto che il suo "cliente" su tempi e modi della spedizione era "apparso in difficoltà". Mentre alla seconda contestazione della Procura il penalista ha risposto spiegano che per lui tutti quelli che entrano nel suo studio sono da considerarsi clienti e che quindi vale il segreto professionale.

La decisione di sentire Vittorini come testimone era arrivata l'11 luglio scorso, quando i giudici di secondo grado avevano deciso, a sorpresa, di riaprire l'istruttoria dibattimentale accogliendo le eccezioni presentate dalla difesa di Binda su uno degli elementi chiave del processo, e cioè la famosa lettera con la prosa "In morte di un'amica". Contestualmente alla deposizione di Vittorini, il tribunale ha disposto anche un confronto tra grafologi.

HA COLLABORATO GABRIELE MORONI