"Ho raccontato il Covid con i numeri. Che non mentono mai"

Davide Tosi, ricercatore all'università dell'Insubria, ha analizzato l'andamento delle curve di contagi, ricoveri e decessi dall'inizio della pandemia

Davide Tosi

Davide Tosi

Varese – I numeri non sbagliano mai. E possono rivelarci molto del nostro futuro. Basta leggerli correttamente. In questa battaglia lunga un anno contro il coronavirus siamo stati travolti da cascate di numeri. A partire da quelli riguardanti i contagi, attesi ogni giorno da milioni di italiani come un salvagente a cui aggrapparsi nel mare in tempesta o, alternativamente, come un cupo segnale di conferma della catastrofe incombente. Eppure i numeri, soprattutto di fronte a un fenomeno complesso come una pandemia, vanno guardati nella loro completezza. Lo sa bene Davide Tosi, 42 anni, ricercatore all’università dell’Insubria, esperto di big data. Dalla comparsa dei primi casi di Covid-19 in Italia ha iniziato un lavoro titanico di raccolta cifre, elaborate in curve per analizzare l’andamento della pandemia. Un impegno che gli ha permesso di predire con precisione gli sviluppi dell’infezione in Italia e in Lombardia.

Quando ha iniziato la sua analisi?

“Prima che si venisse a sapere del primo caso di Covid in Italia. A gennaio dell’anno scorso ho cominciato a monitorare la situazione in Cina. Poi, da febbraio, è toccato al nostro Paese. L’ho fatto per passione ma anche per la mia ‘forma mentis’ di analizzatore di dati. Siamo circondati da informazioni generate da sorgenti eterogenee ed elaborarle per averle a disposizione in un formato ufficiale è molto utile a comprendere quello che accade nel mondo”

Come si è sviluppato il suo lavoro?

“Fin da inizio del marzo scorso ho avviato studi di correlazione per verificare l’interdipendenza fra dati italiani e cinesi. Da lì ho elaborato un modello predittivo per stimare l’andamento dell’epidemia in Italia. Quel documento fu pubblicato prima come report scientifico, poi sulla rivista internazionale Journal of Medical Internet Research. Il ‘mio’ modello prevedeva un picco del contagio a fine marzo, l’ingresso nel plateau per metà aprile fino a un rallentamento nei primi giorni di giugno. Quelle previsioni si sono rivelate azzeccate. Monitorando i dati giorno per giorno ho iniziato un’opera di divulgazione scientifica sul mio profilo Facebook”.

Dove l’ha condotta questo approccio?

“Con l’aiuto di due tesisti di Informatica, Alice Schiavone e Alessandro Riva, ho ideato il portale ‘Covid 19-Italy.it’. Su questo sito siamo stati i primi a introdurre il calcolo dell’indice Rt, ancora prima che ne parlasse il Cts. Su internet abbiamo pubblicato una piattaforma per la visualizzazione dei grafici riguardanti le curve di contagi, ospedalizzazioni, terapie intensive e decessi estesi a tutte le regioni”.

Quando si è accorto che il virus aveva ripreso a mordere?

“A fine luglio abbiamo lanciato il primo campanello d’allarme. All’epoca c’erano parecchie voci, anche autorevoli, che parlavano di problema risolto. Noi ci siamo accorti che il trend della curva dei contagi era cambiato. Il 25 agosto abbiamo pubblicato un nuovo modello predittivo sul destino che ci attendeva per l’autunno. Anche in quel caso siamo stati buoni profeti, anticipando la lenta risalita e l’esplosione dei contagi due settimane dopo l’apertura delle scuole che ci ha condotto in piena seconda ondata.

Ci si è spesso concentrati sul numero assoluto di casi e sull’Rt: è stata una scelta corretta?

“No. L’ho sempre detto. I numeri vanno guardati nella loro completezza. Quelli della giornata, i dati storici e i trend futuri. Focalizzarsi su un unico dato è sbagliato. Tutte le curve sono legate fra loro. Sia proporzionalmente, sia a livello numerico. C’è bisogno di un’analisi globale dei dati che in questa epidemia è mancata”.

Ci siamo abituati a parlare di due ondate, quella primaverile e quella autunnale. È una rappresentazione corretta?

“A livello nazionale sì. Bisogna aggiungere che la seconda ondata non si è risolta, finora, e che alcune regioni hanno avuto un andamento più frammentato. La Sicilia, per esempio, ha avuto una riduzione nel corso della seconda ondata seguita da una nuova esplosione di contagi, per cui in questo caso è corretto parlare di terza ondata. A partire da dicembre in Italia l’andamento si è stabilizzato, ma da fine gennaio c’è stato un nuovo innalzamento dei dati. Parlo del dato ‘normalizzato’, reso indipendente dai tamponi effettuati giorno per giorno. Questo approccio ci consente di avere di giorno in giorno un numero – e non una percentuale – che ci permette di confrontare l’andamento delle due ondate”.

Quali sono state le differenze?

“Come sviluppo sono state molto simili. La grande divergenza è emersa nel tempo: nella prima ondata avevamo un sommerso di casi imponente. Per avvicinarsi alla realtà dei contagi bisognava moltiplicare i casi ufficiali per 5 o per 6. Ora ci siamo avvicinati al dato effettivo, visto che si è riusciti a potenziare l’attività di screening con i tamponi. Adesso i numeri assoluti che vediamo ogni giorno andrebbero moltiplicati per un valore fra 1,5 e 1,6. Nelle ultime settimane, però, è intervenuto un fatto che ha ‘drogato’ le curve”.

Ovvero?

“L’introduzione dei test antigenici rapidi ha fatto crollare le curve, eccetto quella dei decessi che, ovviamente, non è toccata da questo cambio di rotta. Nel mio lavoro ho dovuto disaggregare i dati resi pubblici. Se ci basiamo solo sui tamponi molecolari si evidenza la salita della curva”.

Secondo quello che dicono i dati è corretto affermare che l’unico modo per appiattire le curve sono le restrizioni più rigorose?

“Le analisi dimostrano che è così. Sia per il lockdown imposto durante la prima ondata, sia con l’introduzione delle divisione in zone della seconda. Sul fronte dell’RT la zona gialla porta a un aumento del 10%, la zona arancione a una riduzione del 4%, la zona rossa a un calo fra l’8 e il 10%”.

Sulle curve si inizia già a vedere un effetto della campagna vaccinale?

“In Italia no. Ci vorrà del tempo. E molto dipenderà dai ritmi della somministrazione dell’antidoto e da eventuali limitazioni nelle forniture. In Israele, dove è stato vaccinato il 50% della popolazione, si osserva una riduzione del contagio in particolare nelle fasce più a rischio. Su questo, però, può incidere anche il lockdown deciso poco prima dell’avvio delle vaccinazioni”.

L’ultimo allarme riguarda le varianti, in primis quella inglese. Cosa ci dobbiamo aspettare?

“Attualmente si stima che la variante inglese abbia già una diffusione in Italia prossima al 20%, con una capacità infettiva più alta dell'attuale ceppo virale. Considerato che al momento abbiamo un Rt nazionale a 1 e che questa variante ha una maggior capacità di diffusione, possiamo aspettarci una crescita dell'indice Rt nelle prossime due/tre settimane, con un incremento collegato all'aumento dei casi che potrebbero arrivare a superare nuovamente i 20mila nuovi contagi al giorno. Con una ripartizione a metà fra vecchio e nuovo ceppo. Il destino delle prossime due settimane è già segnato per quanto riguarda le curve. Intervenendo ora con nuove forme di contenimento ci permetterà però di incidere sul futuro prossimo. Nel senso che vedremo gli effetti delle nostre azioni fra un paio di settimane”.

Com’è stata l’interazione con i ‘follower’ della sua pagina Facebook ‘Predire è meglio che curare’?

“Buona. Mi seguono in 6.000 e con i post ho raggiunto un totale di circa 500mila persone. Il mio è un pubblico abbastanza di nicchia. Ci sono molti medici e statistici. Il livello di audience è alto. C’è qualcuno che mi segue sin dall’inizio. Si è creata una sorta di community, penso che sia positivo”.  

Lavorare quotidianamente sui dati come ha influito sulla sua percezione della pandemia?

“Ho vissuto quest’anno abbastanza serenamente. Avere contezza di quello che accadeva nella realtà mi ha permesso di conservare sempre la consapevolezza di quello che stava succedendo. Ho seguito scrupolosamente le precauzioni ma senza ansie o paura. E lo stesso ho trasmesso alla mia famiglia. È stato comunque un anno impegnativo, per le tante richieste ricevute da enti locali ma anche dal Cts, oltre che per le interviste. Spero di aver dato un contributo nel mio piccolo”.

Com’è stata affrontato l’impatto del Covid dalle istituzioni, secondo lei?

“Credo che sia stato fatto un buon lavoro, anche alla luce del fatto che siamo stati la prima nazione a essere colpita dopo la Cina e, come Lombardia, la regione che ha pagato il prezzo più alto. Qualche errore c’è stato, chiaramente, ma ci trovavamo di fronte un nemico sconosciuto. Quello che ha fatto più male è stata l’estremizzazione degli approcci. Gli ottimisti che hanno fatto abbassare la guardia d’estate e i catastrofisti che hanno alimentato l’ansia”.

Nei programmi tv e sui giornali abbiamo visto moltissimi virologi, infettivologi e specialisti medici di ogni sorta. Meno analisti di dati. Come mai secondo lei?

“L’ultima cosa che appassiona il pubblico sono numeri e dati. Perché sono asettici e non offrono l’emotività che altri messaggi possono garantire. Gli spettatori preferiscono identificarsi in posizioni ottimiste o pessimiste. Eppure la nostra sarebbe stata una figura importante da coinvolgere, anche perché la pandemia ha portato a una grossa invasione di campo nelle competenze. In troppi hanno commentato numeri riguardanti il virus senza sapere come leggerli correttamente e quali utilizzare”.

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