Boris Johnson fra Covid e Partygate: com'è andata la pandemia in UK. E cosa rischia BoJo

Intervista a Daniele Meloni, esperto di politica britannica e Brexit

Boris Johnson, il vulcanico premier britannico, è sotto tiro per la sua partecipazione ad alcuni momenti conviviali organizzati a Downing Street durante il lockdown. Il leader conservatore ha chiesto scusa, ma il “Partygate” – come è stato ribattezzato dai media – potrebbe anche essergli fatale. Johnson, per ora, resta al suo posto, anche perché ha dichiarato di non essere comunque intenzionato a dimettersi. Ma la sua “panchina” scotta: pesano il pressing dei media e, soprattutto, il dissenso interno al partito. Il tutto mentre il Regno Unito è entrato in una nuova fase di approccio al Covid considerato oggi, oltre manica, una patologia con cui convivere e non più un’emergenza sanitaria. Ma come si è comportata la Gran Bretagna di BoJo in questi due anni di Covid-19? E le differenze con Italia e Unione Europa nel trattamento della pandemia sono state davvero così marcate? Ne parliamo con Daniele Meloni, esperto di Regno Unito e autore di “Boris Johnson, l’ascesa del leader conservatore e il Regno Unito post-Brexit”, uscito per Historica giubilei Regnani.

Come stanno reagendo media e popolazione alla vicenda “Partygate”?

“Tabloid, altri quotidiani e televisioni stano sparando ad alzo zero. Bbc, Sky News e Itv hanno dato molto spazio alla vicenda. In parallelo i sondaggi mostrano una flessione nel giudizio sui Tories (il partito conservatore, ndr) e nell’immagine di Boris Johnson”.

Un appannamento dovuto solo alle “feste” organizzate a Downing Street?

“No. L’elettorato conservatore sta dimostrando di gradire poco l’aumento delle tasse, annunciato a ottobre con l’obiettivo di riformare il sistema sanitario nazionale e l’assistenza socio sanitaria. E nel partito ha pesato il dissenso interno rispetto all’introduzione, prima di Natale, delle restrizioni per contenere la variante Omicron. In 99, fra i deputati Tories, hanno votato contro e il provvedimento è passato solo grazie al consenso dell’opposizione”.

Che differenze ci sono state nell’approccio al Covid-19 fra Regno Unito e Italia?

“Non sono state così profonde come ci è stato raccontato. Il Regno Unito nel marzo del 2020 è entrato in lockdown due settimane dopo l’Italia, perché all’epoca i numeri del contagio erano interiori. La strategia del governo si è basata sui consigli del ‘chief scientific advisor’ Patrick Vallance e del ‘chief medical advisor’ Chris Whitty, che proposero di isolare le persone fragili e ritardare il picco dell’infezione all’estate. Un piano rivelatosi fallimentare, perché già in primavera il contagio era esploso, con un aumento marcato dei decessi”.

Successivamente come ha agito il governo?

“Sono seguiti due nuovi lockdown, il più duro nel dicembre del 2020, quando era divenuta dominante la variante di Kent (quella che noi abbiamo chiamato variante inglese, ndr). Poi, visti gli effetti sull’economia e sull’equilibrio mentale delle persone, dalla tarda primavera del 2021 si è scelto di provare a convivere con il virus, arrivando al ‘Freedom day’ del 21 luglio scorso. Infine, con l’ingresso sulla scena di Omicron, prima di Natale sono state decise le nuove limitazioni, cancellate giovedì scorso. Insomma, si è oscillato fra aperture e chiusure come in Italia. Ultimamente ha prevalso una visione più ‘aperturista’, anche perché ci sono milioni di persone in coda per effettuare esami e operazioni con il sistema sanitario nazionale”.

Nessuna differenza quindi?

“La principale divergenza è che il governo Johnson si è trovato fra due fuochi. Da una parte l’opposizione che lo accusava di ritardare le chiusure, dall’altra la pressione del suo partito che lo invitava a riaprire. Qui, invece, Conte e successivamente Draghi hanno goduto di ampie maggioranze a favore di lockdown e restrizioni. Il leader Tory, dipendendo dal giudizio dell’elettorato e dal rapporto con la sua maggioranza, dato il contesto britannico ha dovuto fare di necessità virtù”.

L’uscita dall’Unione ha portato vantaggi al Regno Unito nel periodo della pandemia?

“La Brexit ha inciso lievemente sul piano di vaccinazione. Il programma di immunizzazione massiva nel Regno Unito è iniziato quando Londra era ancora nell’Unione, approfittando di una procedura d’emergenza prevista da Ema. Johnson è stato semplicemente più rapido. Sul fronte dell’approvvigionamento dei vaccini il Regno Unito ha fatto ricorso soprattutto ad AstraZeneca che, va ricordato, è azienda in parte britannica, con cui aveva stipulato un contratto che gli dava la precedenza sui primi 100 milioni di dosi. Qualche vantaggio si è avuto sul fronte economico”.

Ovvero?

“Sulle restrizioni e sulle strategie per provare a uscire dalla pandemia l’Unione Europea, nei suoi Stati principali, si è sostanzialmente mossa come un unico soggetto. Il Regno Unito ha adottato una linea autonoma che ha permesso all’economia di crescere più rapidamente, come dimostrato dagli ultimi dati. Per quanto riguarda il passaggio da pandemia a endemia, che in Italia ancora non è stato trattato, più che la Brexit ha contato la cultura anglosassone, abituata a cercare di compensare la sicurezza sanitaria con quella economica e psicofisica”.

Che tipo di comunicazione pubblica c’è stata dei dati riguardanti la pandemia?

“Inizialmente si teneva un briefing quotidiano, a cui partecipavano i due advisor (Vallence e Whitty, ndr) insieme al primo ministro o a un altro esponente del governo. Più avanti i bollettini si sono fatti più radi, sostituiti da momenti in cui Johnson, affiancato da alcuni collaboratori sulla pandemia, ha spiegato le scelte del governo, per esempio la reintroduzione delle mascherine al chiuso. Anche sui media, comunque, lo spazio dedicato alla pandemia, specie sul fronte del numero dei contagi e dei decessi, è notevolmente diminuito rispetto a quello che accade in Italia”. 

Qual è stato l’errore principale di Johnson in questi due anni di Covid? E la mossa più azzeccata?

“Sicuramente il successo principale è stato l’organizzazione di un piano di vaccinazioni molto capillare. Anche adesso la Gran Bretagna è il Paese leader nella somministrazione delle terze dosi. L’errore più evidente BoJo l’ha commesso all’inizio, quando la malattia si stava diffondendo, continuando a visitare gli ospedali e a evitare le precauzioni, in primis stringere mani qua e là. Si è mostrato vicino alla cittadinanza ma ha pagato anche sul piano personale, visto che è stato contagiato e lui stesso è finito in Rianimazione. Ma è un atteggiamento tipico del personaggio, un outsider della politica un po’ svagato”.

E sul fronte politico?

“Sicuramente portare a Downing Street Dominic Cummings, coordinatore della campagna elettorale 2019 e di quella per la Brexit. Un genio sul fronte della comunicazione, un disastro quando ha dovuto agire nel cuore della pubblica amministrazione. Tanto è vero che un anno fa Johnson ha dovuto licenziarlo. E lui si è ‘vendicato’ con una serie di rivelazioni sulle ‘feste’ organizzate durante il lockdown”.

Che futuro attende Boris Johnson?

“Il suo destino è appeso a un filo. I deputati Tory possono promuovere una mozione di sfiducia inviando 54 lettere di ‘no confidence’ al presidente del gruppo parlamentare conservatore. Non si sa questa cifra verrà raggiunta, perché si tratta di una procedura segretissima. Qualora questa iniziativa andasse in porto, però, Johnson dovrà affrontare la mozione di sfiducia all’interno del suo partito, che supererà solo con il sostegno del 50% più 1 dei deputati. Nel caso non lo ottenesse, dovrà dimettersi dal ruolo di leader Tory e da primo ministro”.

Secondo lei cosa accadrà?

“Faccio un pronostico. Credo che si arriverà alla mozione di sfiducia. Che poi verrà respinta. Anche perché gli oppositori interni non hanno un leader carismatico e rappresentano un fronte molto eterogeneo”.