L’intelligenza artificiale prenderà il controllo?

La conoscenza, le tecnologie, le sfide poste dal tempo rapido, fin troppo frenetico, del cambiamento

Milano, 10 febbraio 2019 - La conoscenza, le tecnologie, le sfide poste dal tempo rapido, fin troppo frenetico, del cambiamento. Come farvi fronte? Ne scrive Gianfranco Pacchioni, uomo di scienza con vasta cultura filosofica, in “L’ultimo sapiens”, un “viaggio al termine della nostra specie”, Il Mulino. La straordinaria evoluzione dell’intelligenza artificiale ci fa pensare a un futuro in cui sapiens supertecnologici emargineranno noi sapiens oramai desueti e controlleranno un mondo alterato rispetto ai valori di libertà, responsabilità, dubbio: “Arrivano cambiamenti sociali profondi senza che la società riesca ad adattarsi”, con conseguenze “probabilmente positive ma non prive di ombre e prezzi da pagare”. Un processo che non si può fermare, ma almeno cercare di governare e controllare. Come, nessuno lo sa bene. Per capire, Pacchioni mette a confronto i racconti di Primo Levi, scienziato visionario e dolente con le evoluzioni dell’attualità scientifica e tecnologica. Pensiero complesso.

Fascinoso. E inquietante. Per imparare a ragionare, proprio la scuola ha un ruolo fondamentale fin dalle elementari. Lo testimonia Franco Lorenzoni, maestro, in un libro di grande spessore culturale e civile, “I bambini ci guardano”, ovvero “un’esperienza educativa controvento”, Sellerio. Un paese umbro di duemila abitanti, l’irruzione della realtà già dal primo giorno di scuola: la foto di Aylan, il piccolo profugo siriano spinto dal mare sulla spiaggia di Bodrum in Turchia. I bambini ne sono sconvolti. “Perché si emigra?”, chiedono al maestro. Parte da lì una ricerca sull’emigrazione, il Mediterraneo, la matematica. Con esperienze e culture diverse a confronto. Insegnare è anche ascoltare, “aprire porte, spalancare finestre e allargare l’orizzonte dei bambini, stimolando le sensibilità più diverse”. Responsabilità grande e difficile, di cui Lorenzoni cerca d’essere all’altezza, ricordando Piero Calamandrei, che paragonava la scuola a “un organo emopoietico”, quello cioè “in cui si forma il sangue che porta nutrimento a ogni cellula del corpo sociale”. Insegnare vuole dire anche misurarsi con tutte le dimensioni della lingua, come spiega Giuseppe Patota, professore all’università di Siena e Accademico della Crusca, in “La grande bellezza dell’italiano - Il Rinascimento”, Laterza, seconda parte di un’indagine cominciata con l’analisi e il racconto della lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio. Qui si parla di Pietro Bembo, Ludovico Ariosto e Nicolò Machiavelli, con le loro parole sistemate in “stanze” come fossero opere di pittura che adornano il palazzo della civiltà. Si “ammira la forma delle frasi”, si lega il linguaggio poetico all’evoluzione civile, se ne sottolinea l’attualità: “Compiamo un atto d’amore per la nostra lingua. E lanciamo al tempo stesso un atto d’accusa nei confronti di chi la sta progressivamente trasformando in una lingua violenti, rozza, insultante. In una parola: brutta”.