Il boxeur dal cuore d’oro: togliamo ragazzi dalla strada

Se dici pugilato a Milano, la mente va a Giacobbe Fragomeni. Nato in città, alla periferia dello Stadera, è stato un simbolo di longevità sportiva, sul ring fino a 47 anni. Oggi è allenatore e trasmette la passione alle nuove leve, spesso provenienti da quelle stesse realtà complicate in cui ha vissuto da piccolo Fragomeni. Per questo i City Angels lo hanno scelto come testimonial nel mondo sportivo, omaggiandolo con il Premio Campione.

Fragomeni, qual è stata la sua reazione al riconoscimento?

"È stato un onore. Non me l’aspettavo. Il premio è dovuto al lavoro che svolgo nel sociale, stiamo per aprire una palestra a Quinto Stampi per aiutare dei ragazzi ad uscire dalla strada. Io sono nato a 4 chilometri da dove sorgerà, ci passavo a correre quando ho iniziato a fare il pugile. Il percorso era via dei Missaglia, Gratosoglio, Quinto Stampi, Rozzano e indietro".

Molti di questi ragazzi sono anche nella palestra aperta un anno fa in zona centro, il Fight Club Fragomeni.

"Voglio che diano un senso alla loro vita. Alcuni di loro li aiutiamo, se hanno difficoltà a pagare. Il vero problema è quanto resistono. Alcuni arrivano un po’ presuntuosi, pensano di essere già campioni del mondo. Per arrivare in alto bisogna faticare, non parlare. Ma ormai ho imparato a capire chi ho di fronte".

La fame aiuta a emergere?

"Ti dà una mano. Sul ring e fuori. Però durante il match devi avere personalità. Quando sei lassù combatti con te stesso prima ancora che con l’avversario".

Si soffre più facendo il pugile o stando a bordo ring?

"Da insegnante soffri perché vorresti che il pugile facesse determinate cose, ma devi anche capire che dentro c’è il ragazzo, non tu. Io ero capace di ammortizzare i colpi, loro li prendono pieni perché all’inizio non hai l’esperienza per sapere come attutire e vedono i nuovi campioni che stanno con la guardia bassa, non capendo che quelli hanno una capacità diversa nello schivare".

Come si pongono i giovani quando la sentono parlare?

"Ogni tanto vado ospite nelle carceri e nelle scuole a parlare di bullismo, di quel che significa tirarsi fuori da situazioni imbarazzanti. Far stare degli adolescenti in silenzio per due ore non è facile, però ho una storia che attira e quindi mi stanno a sentire, interagiscono".

Cosa ricorda degli anni allo Stadera? "Ero un ragazzo un po’ “pirlotto“, spesso in strada. Avevo capito che non sarei andato a finire bene. Per questo sono entrato alla Doria dove ho trovato il maestro Ottavio Tazzi, che io chiamavo “il nonno“. Oggi non c’è più, ma cerco di mantenere il suo esempio. Si sta in palestra e si soffre insieme".

Com’è cambiato il pugilato?

"Ho cominciato negli anni ‘90 quando ancora c’era tanto interesse, poi è scemato. Ora ci sono stati eventi che hanno portato buoni risultati, bisogna continuare ad attirare il pubblico con bei match e devono sparire i manager che hanno fatto fallire questo mondo pensando alle loro tasche e non al futuro dei pugili".

E Milano?

"Il centro è sempre più centro e le periferie sono sempre più periferie. È sempre stato così. Sicuramente la città è cambiata in meglio, ma la povertà c’è sempre ed è a due passi dalla ricchezza".

M.T.