Delitto Klinger, trent’anni di mistero. Il figlio: "Il killer? Gli direi di pentirsi"

Milano, il grande medico fu ucciso il 18 febbraio 1992. "Una vicenda sicuramente legata a un paziente"

Roberto Klinger

Roberto Klinger

Milano, 18 febbraio 1992. La sera prima è stato arrestato l’ingegner Mario Chiesa. Ma il professor Roberto Klinger non vedrà il ciclone di Mani Pulite. La famiglia proviene da Magonza. Klinger, diabetologo e internista di fama, è direttore del servizio di check-up alla prestigiosa clinica San Pio X. Medico sociale dell’Inter (la Grande Inter del presidente Angelo Moratti) fino agli anni Settanta, dal ‘66 capo dello staff medico della Pallacanestro Cantù, si è occupato anche di ciclismo, pugilato, atletica, sci di fondo. Il professore esce alle 7.25 dal condominio al 29 di via Muratori, zona Porta Romana. Percorre a piedi un’ottantina di metri. Sale sulla Panda celeste parcheggiata fra via Muratori e via Friuli. Il killer a volto scoperto non gli lascia il tempo di richiudere la portiera. Tre colpi di 7.65 a bruciapelo, uno alla testa e due al torace, da una pistola Molgora, una scacciacani modificata per uccidere. Il professore muore all’istante. 

Marco, affermato chirurgo plastico, è uno dei tre figli di Klinger.

Marco Klinger, figlio del medico
Marco Klinger, figlio del medico

Roberto Klinger medico.

"Se oggi fosse vivo, la sua figura sarebbe da una parte totalmente estranea al mondo folle di violenza, potere, denaro in cui viviamo; dall’altra sarebbe totalmente attuale. Mio padre aveva fatto di dignità, orgoglio, generosità, fedeltà alla parola data il suo credo. Ecco perché sarebbe attualissimo: perché la nostra società ha bisogno di valori seri, solidi".

Roberto Klinger padre.

"Un punto di riferimento per la famiglia, compresi i miei zii e i miei cugini. Era il capo di una famiglia allargata. Esercitava le sue doti di carisma, intelligenza profonda, cultura senza sopraffare nessuno. Non ti sentivi mai scavalcato".

Chi poteva odiarlo al punto da volerlo sopprimere?

"È avvenuto qualcosa di disarticolato dalla vita di mio padre".

Ucciso per errore?

"Non ho mai creduto all’errore. È stato qualcosa che si è accavallato con la vicenda di un paziente. Qualcosa collegato a un paziente, alla sua storia di vita. Mio padre non c’entrava niente con la politica. La sua vita privata era con noi, in famiglia. Non era un arrivista. Non aveva mai speculato su niente. Il denaro per lui era un mezzo per esercitare la sua generosità e per stare bene, in allegria noi in famiglia. Sono convinto che non sia stato colpito per errore. Mio padre aveva un brutto vizio, se vogliamo dire così: quello di essere un po’ anche il confessore dei pazienti. Era molto tranquillizzante. Forse qualcuno temeva che papà avesse appreso qualcosa di scomodo".

La “vendetta“ di un paziente?

"Più che all’azione diretta penso a qualcosa e a qualcuno legato alla storia di un paziente che aveva avuto a che fare con lui. Mio padre ne aveva visitati migliaia".

Ha conosciuto Alessandro Luca Pieretti, il medico che fu indagato per l’omicidio?

"L’ho evitato a lungo. Anni fa mi ha atteso fuori da una clinica. ‘Marco, mi ha detto, te lo giuro: io non ho ammazzato tuo padre’. Ho avuto come una visione: cosa avrebbe fatto mio padre nella stessa circostanza? La risposta è stata: gli avrebbe stretto la mano. Ho steso la mia. Non siamo diventati amici, ma credo che quella stretta sia stata per lui un sollievo".

All’epoca si parlò di un sosia che abitava nello stesso condominio.

"Una somiglianza molto vaga".

In una una lettera al procuratore un anonimo si presentava come l’assassino. Allegava una fotocopia del ricettario del professore.

"Migliaia di visite, migliaia di ricette. Torniamo a quel ‘qualcosa’ collegato alla storia di un cliente. Una ricetta può essere anche riprodotta, contraffatta".

Sono trascorsi trent’anni.

"Sono tanti ma sono anche pochi. Papà è una di quelle persone che anche dopo la morte non se ne vanno o se ne vanno molto lentamente. Ci sono altri che spariscono subito dopo la morte e non perché abbiano vissuto una vita modesta. Papà, in vita, ha piantato tante bandierine verdi che sono rimaste. Tante persone che aveva curato sono scomparse, ma ci sono i figli, i nipoti a conservare il suo ricordo".

Sono mancati la verità giudiziaria e uno sbocco processuale.

"Ho seguito le indagini. Ho apprezzato il lavoro della squadra mobile dell’epoca. Hanno lavorato con intensità. Sono entrati nella vita di mio padre e sono rimasti avvinghiati, come se avessero avvertito il carisma della sua figura. Hanno profuso un impegno non comune. Alcuni mi sono rimasti come amici. In famiglia spesso ne parliamo. Certo non è bene non avere avuto giustizia. Sarebbe stato e sarebbe importante sapere, arrivare alla verità. Questo vale però per il 10 per cento, l’altro 90 è quello che è stato, quello che ha rappresentato mio padre. La figura di Roberto Klinger ha sormontato anche la sua morte, l’ha superata".

Professor Klinger, domanda finale: se potesse comunicare con lui, cosa direbbe all’assassino?

"Sono convinto che non ci sia più. Se fosse ancora vivo, forse gli direi: ‘Hai ancora tempo per pentirti’".