Franco Tatò e il '68: "Io in piazza per caso, erano figli di papà"

Il Kaiser Franz: mi ritrovai tra quei fannulloni di Parigi, mi arruolarono per il mio impermeabile casual

Franco Tatò

Franco Tatò

Milano, 13 maggio 2018 - Parigi, boulevard Saint-Germain, maggio 1968. I bagliori dei falò illuminano il crepuscolo. Tra i giovani rivoluzionari che corrono in strada, c’è un uomo con l’impermeabile. Non lo direste mai, ma quell’uomo è Franco Tatò, che passerà poi alla storia come Kaiser Tatò per la determinazione sfoderata in Olivetti, Enel, Fininvest, Treccani.

Dottor Tatò, nel 1968 aveva 36 anni, che ci faceva tra i ventenni rivoluzionari? "Non ho fatto il Sessantotto ma nel maggio ‘68 ci finii dentro, in modo anche ridicolo, a Parigi". L’antefatto: che ci faceva a Parigi in quelle settimane calde? "Quell’anno restai a Parigi 6 o 7 mesi per la Olivetti General Electric, dove ero capo del marketing. Il giorno che scoppiò la rivoluzione ero in Brasile per lavoro e ci restai bloccato per 10 giorni. Tornai con il primo aereo disponibile, un sabato". Non era che un debutto. "La domenica, frastornato dal jet lag, vado al cinema dalle parti di boulevard Saint-Germain a vedere uno di quei film un po’ stravaganti dell’epoca, La schiuma dei giorni, di Charles Belmont. Esco dal cinema sotto sera e trovo le barricate: pneumatici in fiamme, gente con i bavagli davanti alla bocca, fumogeni che scoppiavano ovunque. All’improvviso m’imbatto in Alain Geismar, uno dei capi della rivolta con Daniel Cohn-Bendit. Io vestivo un impermeabilino piuttosto casual, così quello mi guarda e mi grida: ‘All’École des Beaux-Art!’..." Arruolato. "Non mi sono fatto pregare. Mi sono messo a correre con tutti verso l’École des Beux-art. Non volevo finire male. Poi tra Rue de Luxembourg e Boulevard Saint Michel sono partire le cariche della polizia che ha mandato casa tutti". Pure lei. Incolume. "Sì, sì... Poi nelle settimane successive ho vissuto gli eventi. Sono stato all’Odeon occupato dagli studenti, ho girato per la città sottosopra". La prima rivolta non si scorda. "In realtà avevo già visto la rivolta tedesca nel ‘66 a Francoforte. Ma a Parigi era la rivoluzione in chiave francese, la ribellione dei fannulloni. Terminò un giorno a fine maggio. A radio unificate mandarono la Marsigliese e poi il generale De Gaulle che annunciava: ‘Le truppe hanno circondato Parigi, la ricreazione è finita’. E lì è finito il ‘68 pseudo barricadero di questi borghesi travestiti da operai". Giudizio molto duro. "Era una rivolta studentesca ma erano tutti studenti della Sorbona, di Sciences Po, dell’École Polytechnique. Famiglie ricche. Ragazzi travolti dai complessi di colpa per le ricchezze che sperperavano le loro famiglie. Volevano marciare con il popolo per rifare la società. Ma la responsabilità è stata della società che lo ha accettato e questo rimane un fenomeno inspiegabile. In un’azienda quando ci crea un problema lo si risolve, non ci si autoaccusa". C’era un grande senso di colpa nella società dell’epoca? "Sì, c’era la classe dirigente che si vergognava di essere dirigente o forse si stava già accorgendo di essere incapace. Cinquant’anni dopo non è migliorata, ma non solo in Italia". Che cosa ha lasciato il ‘68 nella società industriale? "Il suo prodotto legislativo è lo Statuto dei lavoratori, dove si scrivono principi giustissimi ma non si dettano le regole e così una giustizia sciagurata ha fatto sì che non ci sia più il rispetto del lavoro. Con l’articolo 18 si è ottenuta la illicenziabilità. Il miracolo economico italiano invece si era sviluppato in una società giusta. Il sistema discutibile di premi e punizioni funzionava". Con il ‘68 finisce il miracolo economico? "In un certo senso. Quando io iniziai a lavorare, nel 1956, sapevo che se non avessi fatto il mio dovere mi avrebbero cacciato. L’impunità, il diritto comunque allo stipendio, qualunque puttanata uno faccia, è stata una pillola avvelenata che ha distrutto il paese. E ha creato tra l’altro la separazione tra privato e pubblico: siamo diventati tutti impiegati statali". Chissà che idea si è fatto del reddito di cittadinanza. "Ci ho pensato parecchio. Capisco che nasca anche a livello accademico l’idea di garantire economicamente le persone che temono di perdere il lavoro a seguito della rivoluzione tecnologica. Con il reddito garantito la società pensa di evitare eventuali disordini che sarebbero peggio della rivolta studentesca del 68". E la proposta dei 5 stelle? "C’è una base accademica, penso a Rifkin o Stiglitz. Ma messo nelle mani di demagoghi da quattro soldi, il reddito di cittadinanza diventa una mancia spendibile elettoralmente, soprattutto nel Sud. Un’idea con una parvenza di serietà sfruttata in maniera becera". Pessimista sull’Italia di oggi? "Mah, è come se ci accorgessimo che la democrazia di cui ci siamo vantati con alti e bassi è diventata una macchina per promuovere i cretini. Negli ultimi 30 anni c’è stato un progressivo deterioramento dei vertici, e non solo in Italia. Angela Merkel non è Konrad Adenauer, c’è un abisso. E Martin Schulz non è Willy Brandt. Noi abbiamo votato Salvini e Di Maio, che sono incompetenti. La democrazia si auto-indebolisce perché non produce governanti capaci di capire e risolvere i problemi della società". L’attuale classe politica è figlia della cultura del ‘68? "Questi con il ‘68 non hanno nulla a che fare. Il ‘68 era più serio. Io lo vissi con distacco, scetticismo e fastidio, ma quei ragazzi ci credevano, rischiavano in piazza, mettevano in gioco i loro privilegi per ideali che avevano una loro apparenza di serietà".