Il troppo e il niente

Economisti e sociologi spiegano che la disuguaglianza globale si va riducendo

Milano, 25 luglio 2016 - Economisti e sociologi spiegano che la disuguaglianza globale si va riducendo, ma che il prezzo della progressiva convergenza nei redditi pro-capite è l’aumento delle sperequazioni all’interno degli Stati occidentali. In pratica: lo scivolamento della classe media dei Paesi una volta chiamati industrializzati verso il basso con l’accentuarsi della concentrazione della ricchezza nella punta della metaforica piramide. Il problema, però, è che è maledettamente sempre più complicato spiegare all’impiegato o all’operaio specializzato italiano (ma anche francese e magari tra un po’ anche tedesco) che ogni giorno in Cina, in India – o in qualche altro luogo del Pianeta una volta chiamato in via di sviluppo – migliaia di famiglie e di persone compiono un salto dalla povertà assoluta a quella relativa e da quest’ultima a una discreta agiatezza. O che masse infinite di migranti puntano allo stesso risultato attraverso l’assalto all’Europa e agli Usa. È maledettamente complicato fargli comprendere che si trova proprio nel mezzo di questa sorta di scambio epocale e mondiale.

Per questo deve pagare un costo elevato in termini di perdita di reddito, tutele, status sociale, welfare. Lui, il nostro impiegato o operaio specializzato, è carne della carne di quel ceto medio produttivo e fattivo formatosi nel Dopoguerra e fino agli anni Ottanta, in un contesto di scolarizzazione e industrializzazione diffuse, e politiche economiche, sociali e fiscali, progressive. Fargli mettere in discussione questo paradigma è già in sé una sfida micidiale che sottopone a durissima prova i sistemi sociali e politici occidentali e, in definitiva, la stessa tenuta della democrazia. La sfida, però, rischia di essere impossibile quando sacrifici, rinunce, sconfitte e lacrime si accompagnano all’accentuarsi contestuale delle iniquità e delle disuguaglianze per così dire «interne» ai sistemi di appartenenza: quelle reddituali, ma anche comportamentali. Se è già arduo spiegare all’impiegato o all’operaio specializzato occidentale che deve perdere qualcosa di significativo per effetto della globalizzazione e dei mercati aperti, della tecnologia e della terziarizzazione dell’economia, è praticamente inutile – e anche insopportabile – provarci se le classi dirigenti politiche, economiche, culturali, accettano, favoriscono, tollerano o addirittura giustificano stipendi e divari retributivi fondati sul nulla, selezioni e carriere professionali familistiche o amicali, cordate e camarille parentali, regali e affari di banda e di corrente. Insomma, per scendere dalla sociologia dei piani alti a quella del bar, senza l’esempio non ce la possiamo proprio fare.

Prendiamo l’ultimo caso eclatante. Ebbene, se ci si trova ancora di fronte a retribuzioni e premi come quelli dei dirigenti Rai, alcuni dei quali pagati per non fare niente, allora davvero non ce la possiamo fare. Ma non prendiamocela con il populismo, la demagogia, le spinte nazionaliste, i movimenti irresponsabili e via di seguito. No, tocca alle classi dirigenti, politiche, economiche e culturali, dare l’esempio. E questo è il minimo. Perché, per evitare derive non auspicabili, al di là e oltre i casi più eclatanti, è più che prioritario attuare e sostenere politiche di riduzione delle iniquità e degli sprechi: è la sola via praticabile per rendere meno drammatico un cambio di paradigma che comunque rimane un impervio tornante della storia.