Ex Brambilla, la sentenza di fallimento dopo il pressing dei creditori dell’azienda

Istanze per decine di milioni di euro. Impossibile prorogare il concordato di Agnese Pini

Le ex Trafilerie Brambilla (Carini)

Le ex Trafilerie Brambilla (Carini)

Lecco, 1 ottobre 2014 - Mancavano le garanzie necessarie. Le carte da mettere agli atti di cui un tribunale ha bisogno per fare le necessarie valutazioni e dare ancora fiducia a un’impresa in crisi. Soprattutto, non c’era più tempo: troppi rinvii già accordati dai giudici, uno sforamento di oltre due mesi rispetto alle procedure standard. Mentre i creditori premevano con istanze sempre più urgenti. I creditori e la Procura. Parliamo di insolvenze per decine di milioni di euro. Sono queste, in buona sostanza, le motivazioni che hanno portato il tribunale di Lecco a dichiarare il fallimento delle ex Trafilerie Brambilla.

Lunedì la sentenza. Immediati i suoi effetti nella fabbrica già tristemente spoglia, così come appariva ieri a 24 ore dalla doccia gelata. Il primo a essere fatto sparire dalla direzione è stato il busto del commendator Brambilla. Se ne stava da sempre davanti all’ingresso di quelle che furono le sue Trafilerie nate agli albori del secolo scorso, anni in cui Calolziocorte scopriva a pieno la sua vocazione industriale. Acciaio, metalmeccanica. Sciur Giuseppe è scomparso a metà del pomeriggio di lunedì, portato via a camionate insieme a quel che si trovava nei magazzini svuotati in tutta fretta, sotto gli occhi lucidi e ancora increduli della ventina di operai in turno che da poche ore — la notizia era arrivata verso le 12,30 — avevano scoperto il destino della loro azienda: fallimento, per l’appunto. Ovvero il «no» del tribunale alla richiesta di proroga del concordato preventivo presentato dall’impresa della ex ministra Michela Vittoria Brambilla.

A sentire i protagonisti di questa triste storia imprenditoriale — lavoratori, sindacati, amministratori — nessuno si aspettava il verdetto. Perché «tutto era stato fatto» per chiudere il risiko dell’accordo con il colosso turco Dogan, che dalla primavera scorsa si era detto pronto ad acquisire l’impianto. Pronto, sì. Ma a condizioni pesantissime: riduzione dell’organico (da 70 a 52) e riduzione del 40% dello stipendio. Una sassata. Alla fine gli operai avevano dato l’assenso: «Accettiamo i sacrifici pur di salvare l’azienda». Insomma, meglio i turchi del fallimento. La partita con le maestranze, che aveva fatto sputare sangue, si era risolta mercoledì scorso. E insomma, «il grosso sembrava sistemato», commenta Diego Riva, Fiom. Bastava giusto una proroga da parte del tribunale «per mettere a punto i dettagli». Invece evidentemente qualcosa, al di là delle belle speranze, non è andata come avrebbe dovuto. Troppo tempo passato, troppi rinvii accordati, e ancora non c’erano abbastanza garanzie di riuscire chiudere davvero questa mano di poker imprenditoriale. Almeno, non c’erano abbastanza garanzie messe nero su bianco. Per convincere i giudici e tenere buoni i creditori e le loro richieste milionarie. E i turchi? Pare che restino ancora in gara. Del resto un’azienda fallita si compra a minor prezzo. Con gli operai che nel frattempo si erano pure già ridotti di numero, e avevan scelto di farsi dimagrire lo stipendio. Ma il futuro è un altro risiko. Per il momento, davanti ai cancelli delle ex gloriose trafilerie, resta solo tanta amarezza.

agnese.pini@ilgiorno.net