Allarme jihad nelle nostre carceri. Serve un giro di vite

di SANDRO NERI

Il terrorismo è diventato il nostro incubo quotidiano. C’è paura a viaggiare, a prendere un aereo per andare in vacanza, a frequentare luoghi affollati durante i grandi eventi. Tutti parlano di sicurezza, di controlli intensificati. La gente normale è costretta in coda, davanti ai metal detector, però nessuno pensa ai pericoli che possono covare nelle nostre carceri. Forse la lotta alla jihad dovrebbe cominciare lì dentro, dove il terrore fa proselitismi. Agostino M. - Brescia

DI UN RISCHIO DELLA radicalizzazione violenta e del proselitismo fondamentalista all’interno delle carceri si parla da tempo. Non senza che emergano situazioni contraddittorie, per non dire paradossali. A dire di alcuni rappresentanti sindacali della Polizia penitenziaria, per esempio, i fondi per la formazione e l’aggiornamento professionale degli agenti in servizio nelle carceri sono pochi. Specie se il dato fornito dal ministero della Giustizia, che parla della presenza di 39 detenuti radicalizzati e di almeno 300 ritenuti a rischio di radicalizzazione, risultasse sottostimato. Secondo il Sindacato autonomo polizia penitenziaria, dei 53.850 detenuti ‘ospitati’ nelle carceri italiane 18.091 sono stranieri. Di questi, 10mila sono musulmani, la maggioranza dei quali praticante. In compenso, sempre stando a fonti sindacali, la Polizia penitenziaria è sotto organico di 8mila agenti e la Legge di Stabilità ha bocciato un emendamento che avrebbe permesso l’assunzione di nuovi uomini. La guardia è alta. Ma forse i costi del personale fanno più paura dei jihadisti. sandro.neri@ilgiorno.net