SMART WORKING: UN’OCCASIONE PER RIFLETTERE SUL FUTURO DELLA PA

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IL DIBATTITO in corso scaturito dalle parole del ministro Brunetta volte a concludere l’esperienza di lavoro agile massiva e di contenerla nell’ambito di percentuali minime, può essere un’occasione (da non perdere) sia per evitare luoghi comuni sia per individuare, una volta tanto, percorsi di modernizzazione della PA fondati sulla buona gestione e non sulla norma. Sembra che l’esperienza del cosiddetto smart working sia stata molto apprezzata dai dipendenti della PA. Un indicatore però è stato da tutti trascurato: la produttività. Potremmo dire un fattore ampiamente trascurato in tempi “di pace”, figurarsi adesso. Ma, per valutare l’impatto del lavoro agile dei dipendenti pubblici sui cittadini e le imprese occorre, invece, misurare costi, definire obiettivi sfidanti e rilevanti, assegnare budget e risorse e verificarne l’impiego.

Tutto questo c’è stato raramente con il lavoro in presenza e ancor meno c’è stato con il lavoro da remoto. Le pubbliche amministrazioni, soprattutto quelle centrali, vivono il processo di programmazione come un mero adempimento degli addetti ai lavori (gabinetti e Oiv). La volatilità politica e la sicurezza da parte dei dirigenti di essere valutati al massimo chiudono ogni discorso. Ha ragione, dunque, il ministro Brunetta quando ricorda come lo smart working nella PA sia stato soprattutto uno strumento per contenere i contagi e non altro. Con molti dipendenti che hanno cercato di fare il massimo a distanza e altri piacevolmente spaesati, senza molto da fare.

Il lavoro agile, in realtà, per essere efficace richiede una revisione dell’organizzazione e dei processi che le amministrazioni fanno da tempo fatica a compiere. Il settore del credito, preso più volte a esempio, ha effettuato importanti cambiamenti organizzativi, di processo e di output (meno operazioni da sportello e più consulenza), attraverso investimenti su piattaforme avanzate per i servizi di home banking, ma con prepensionamenti e chiusure di filiali. Erogo più servizi con meno risorse.

Se guardiamo alle riorganizzazioni, le pubbliche amministrazioni in questi anni sono state in grado, al contrario, solamente di effettuare qualche accorpamento a freddo, mantenendo spesso tutte le duplicazioni del caso; tagli lineari delle dotazioni organiche, in quanto imposti negli anni per legge; revisione dei nomi delle direzioni generali (raramente dei contenuti), per giustificare la cessazione degli incarichi in essere; l’aggiunta di qualche direzione o ufficio per gestire qualche funzione emergenziale o nuovo compito, ma nella logica dell’add on senza rivedere nulla. Di revisione dei processi e dei procedimenti non vi è traccia. Quando va bene possiamo parlare più onestamente di telelavoro. Pochissimi i casi di trasformazione digitale.

Quella del lavoro agile, insomma, è una scelta organizzativa, che, una volta definiti “gli istituti normativi ed economici“, attiene a chi è responsabile della micro organizzazione e della gestione: il dirigente. Una scelta che dipende da diversi fattori di contesto e che cambiano ufficio per ufficio come: la presenza di servizi erogati via web, competenze digitali, piattaforme sicure e avanzate, presenza di banche dati e archivi accessibili da remoto. Anche certe affermazioni esageratamente amplificate, però, non aiutano. Il “tornare in ufficio” fa pensare che il problema della produttività della PA sia connessa alla mera presenza fisica. Ma durante lo smart working ci siamo resi conto come molte attività svolte da alcuni dipendenti siano attività low skilled facilmente assorbibili o eliminabili e che quindi una percentuale non bassa di lavoratori attuali sia sottoutilizzata e dovrebbe essere oggetto di quei processi “reskilling”.

Occorre superare la visione dipendente centrica e partire dalle funzioni. L’adozione dello smart working dovrebbe essere un’occasione di riflessione sui processi e sulle organizzazioni, che dovrebbe vedere protagonisti i dirigenti, e non l’ennesimo confronto mediatico sui fannulloni e assenteisti. Tanto più che la presenza in ufficio può risolvere in alcuni casi il problema della “fiducia” o dell’incapacità di lavorare per obiettivi, ma certamente non è di per sé un fattore di produttività.

* Presidente Formatemp e senior advisor Adepp